Ósanwe-kenta
di di J.R.R.Tolkien

Introduzione, glossario, e note addizionali a cura di Carl H. Hostetter, traduzione di Soronel

§ § §

Il saggio intitolato Ósanwe-kenta, "investigazione sulla comunicazione del pensiero", esiste nella forma di otto pagine dattiloscritte, numerate da 1 a 8 da Tolkien. È presentato e (auto)descritto come un "riassunto" (vedi sotto) o "abbreviazione" (MR:415) fatta da un redattore anonimo (I) di un altro lavoro dallo stesso titolo che il saggio Elfo Pengolodh "ha aggiunto alla fine del suo Lammas o ‘Relazione sulle Lingue'" (ibid.). (II)

Se quindi è un documento distinto, rimane comunque strettamente associato e sicuramente è contemporaneo del saggio più lungo che Tolkien ha intitolato Quendi and Eldar (la maggior parte del saggio è stata pubblicata in The War of the Jewels), con il quale è collocato fra le carte di Tolkien. Una nota su una delle pagine di Quendi and Eldar indica che l' Ósanwe-kenta era pensato da Tolkien come aggiunta al saggio più lungo: "Al quale è aggiunta un'abreviazione dell' Ósanwe-kenta o 'Comunicazione del Pensiero'" (ibid.).
Inoltre Christopher Tolkien fa notare che suo padre usava il titolo Quendi and Eldar non per il solo saggio più lungo, ma anche comprendendo l' Ósanwe-kenta ed un altro breve saggio sull'origine degli Orchi (il secondo è pubblicato in Morgoth's Ring, cf. pp. 415 sgg.). Tutti e tre i saggi esistono in versione dattiloscritta e sono "identici nell'aspetto generale" (MR:415).

L'associazione dell'Ósanwe-kenta a Quendi and Eldar si estende anche all'argomento ed alla terminologia. Per esempio, l' Ósanwe-kenta impiega alcuni termini linguistici definiti e discussi nei dettagli in Quendi and Eldar (per es. tengwesta, lambe) in un modo che assume che le definizioni e le distinzioni lì date siano già note. Inoltre, l' Ósanwe-kenta amplifica alcune asserzioni della Note on the ‘Language of the Valar' che conclude Quendi and Eldar: per esempio, che "creare un linguaggio era il talento speciale degli Incarnati, che vivono attraverso un'unione necessaria di hröa e fëa" (WJ:405); e, più stringente ancora, che "i Valar ed i Maiar potevano trasmettere e ricevere direttamente il pensiero (con la volontà di entrambe le parti) per loro natura", anche se "l'uso di una forma corporea... rendeva questa forma di comunicazione meno veloce e precisa" (406). Similmente si sottolinea "la velocità con cui... un tengwesta può essere imparato da un ordine superiore", con l'aiuto di una diretta "trasmissione e ricezione del pensiero" insieme a "cuore caldo" e "desiderio di capire l'altro", come è esemplificato dalla velocità con cui Finrod imparò il linguaggio Bëoriano (ibid.).
(III)

Secondo Christopher Tolkien, una delle copie di Quendi and Eldar è "conservata in un giornale piegato del Marzo 1960", ed alcune note scritte da suo padre su questo giornale e sulla copertina dell'altra copia includono l'Ósanwe-kenta fra le Appendici di Quendi and Eldar (MR:415). Christopher ne conclude che questo complesso di materiale, compreso l'Ósanwe-kenta, "esisteva già quando il giornale fu usato per quello scopo, ed anche se, come in altri casi simili, questo non ci dà un terminus ad quem perfettamente certo, sembra che non ci siano ragioni di dubitare che risalga al 1959-60" (ibid.).

Le otto pagine dattiloscritte qui presentate sembrano comprendere l'unico testo esistente dell' Ósanwe-kenta; se sono state precedute da una qualsiasi versione dattiloscritta o manoscritta, questa evidentemente non è stata conservata. Nel margine superiore della prima di queste pagine, Tolkien ha scritto le tre linee dell'attuale titolo con una penna. Ha anche numerato a mano le prime sette pagine nell'angolo superiore destro, ed ha scritto la nota "Ósanwe" alla sinistra del numero di ognuna di queste pagine, sempre con una penna; nell'ottava pagina però la nota ed il numero sono scritti a macchina.
Questo suggerisce che Tolkien possa aver fatto una pausa, o forse originariamente avesse concluso il saggio da qualche parte nella settima pagina, ed abbia aggiunto a mano il titoletto ed il numero di pagina sulle pagine che aveva fino a quel momento scritto, prima di iniziare l'ottava pagina. Se è così, potrebbe averlo fatto nel punto della settima pagina indicato da uno spazio bianco prima del paragrafo che inizia "Se parliamo infine della ‘follia' di Manwe". Il dattiloscritto è stato anche corretto a penna da Tolkien, principalmente per correggere errori tipografici, anche se in alcuni casi lo ha fatto per cambiare alcune parole. Tranne che in pochi casi, questi cambiamenti sono stati incorporati nel testo senza nominarli.

In questa edizione il testo di Tolkien è stato anche leggermente riorganizzato per quanto riguarda le note. Nella prima pagina (solamente) del dattiloscritto Tolkien ha usato note numerate a piè di pagina, ma come in Quendi and Eldar, nel resto dell' Ósanwe-kenta interrompe il testo con le note, tipicamente scritte sulla riga seguente, o dopo poche righe dal segno di nota, anche quando questo interrompe una frase (cf. WJ:359).
Per la maggior parte di queste note è stato adottato qui l'uso di Christopher Tolkien nel curare Quendi and Eldar di riunire le note di Tolkien alla fine del saggio, distinguendole dalle note editoriali, ed indicandole nel testo con Nota1, Nota2, ecc. fra parentesi. Comunque, sette brevi note, che semplicemente forniscono le glosse Quenya di alcuni dei termini in discussione (quelle per sanwe-latya, sáma, láta, indo, pahta, avanir, e aquapahtie), sono state inserite fra parentesi nel testo principale.

È stato aggiunto, seguendo le note di Tolkien, un breve glossario editoriale delle forme elfiche incontrate nell'Ósanwe-kenta, come metodo conveniente per citare ulteriori informazioni rilevanti prese da altri testi (specialmente Quendi and Eldar, vari testi in Morgoth's Ring, e The Etymologies) e per la maggior parte dei commenti editoriali specificamente linguistici.
Sono grato a Christopher Tolkien per aver fornito questo testo per la pubblicazione in Vinyar Tengwar [N.d.S.: il testo è stato pubblicato su Vinyar Tengwar numero 39], ed a Christopher Wilson, Wayne Hammond, Christina Scull, Arden Smith, e Patrick Wynne per la loro assistenza nella preparazione di questa edizione.

Osanwe-kenta (IV)
(investigazione sulla comunicazione del pensiero)
(riassunto della discussione di Pengolodh)

Alla fine del Lammas Pengolodh discute brevemente la trasmissione diretta del pensiero (sanwe-latya "apertura del pensiero" ["thought-opening"]), facendo al riguardo varie asserzioni, che evidentemente dipendono da teorie ed osservazioni degli Eldar che da qualche altra parte sono trattate a lungo dai Saggi elfici. Questi si occupavano principalmente di Eldar e Valar (comprendendo in questi anche i Maiar di ordini minori). Gli uomini non sono particolarmente considerati, eccetto per il fatto che sono inclusi nelle affermazioni generali sugli Incarnati (Mirröanwi) ["Incarnates"]. Di loro Pengolodh dice solo: "Gli uomini hanno la stessa facoltà dei Quendi, ma più debole di per sé stessa, ed anche più debole nell'uso a causa della forza dello hröa, sul quale la maggior parte degli uomini ha poco controllo attraverso la volontà".

Pengolodh include questo argomento principalmente per la sua relazione con il tengwesta. Ma gli interessa anche, come storico, esaminare le relazioni di Melkor e dei suoi agenti con i Valar e gli Eruhíni
(V), anche se pure questo ha una relazione con il "linguaggio", dato che, come lui sottolinea, questo, il più grande fra i talenti dei Mirröanwi, è stato da Melkor trasformato nel suo proprio maggiore vantaggio.

Pengolodh dice che tutte le menti ["minds"] (sáma, pl. sámar) sono uguali come status, anche se differiscono per capacità e forza. Una mente, per sua natura, percepisce direttamente un'altra mente. Però non può percepire più che l'esistenza di un'altra mente (come qualcosa distinta da sé, anche se dello stesso ordine) eccetto che attraverso la volontà ["will"] di entrambe le parti
(Nota1). Il grado di volontà, però, non deve necessariamente essere lo stesso in entrambe le parti. Se chiamiamo la nostra mente G (come "Guest", ospite, o trasmittente) e l'altra H (come "Host", ricevente), allora G deve avere la piena intenzione di ispezionare H o di informarlo. Ma la conoscenza può essere acquisita o impartita da G, anche se H non sta cercando o non intende (VI) impartirla o riceverla: l'atto di G sarà effettivo, se H è semplicemente "aperto" ["open"] (láta; látie "apertura" ["openness"]). Questa distinzione, dice, è della massima importanza.

"Apertura" è lo stato naturale o semplice (indo) di una mente che non sia altrimenti occupata
(Nota2). In "Arda Incorrotta" ["Arda Unmarred"] (vale a dire, in condizioni ideali di assenza del Male) (VII) l'apertura sarebbe lo stato naturale. Ciononostante ogni mente può essere chiusa ["closed"] (pahta). Questo richiede un atto di volontà cosciente: Nolontà ["Unwill"] (avanir). Questo atto può essere contro G, contro G ed alcuni altri, o può essere una chiusura totale nella "privacy" (aquapahtie).

Anche se in "Arda Incorrotta" l'apertura è lo stato naturale, ogni mente ha, dal momento in cui è stata creata come individuo, il diritto di chiudersi; ed ha il potere assoluto di compiere questa scelta attraverso la volontà. Nulla può penetrare la barriera della Nolontà
(Nota3).
Tutte queste cose, dice Pengolodh, sono vere per ogni mente, da quelle degli Ainur in presenza di Eru, o dei grandi Valar come Manwe o Melkor, a quelle dei Maiar in Eä, e giù fino all'ultimo dei Mirröanwi. Ma differenti stati comportano limitazioni, che non sono pienamente controllate dalla volontà.

I Valar sono entrati in e nel Tempo di propria libera volontà, ed ora sono nel Tempo, finché dura. Non possono percepire nulla al di fuori del Tempo, tranne che attraverso il ricordo della loro esistenza prima che il Tempo iniziasse: possono ricordare il Canto e la Visione. Sono, naturalmente, aperti a Eru, ma non possono di propria volontà "vedere" alcuna parte della Sua mente. Possono aprirsi a Eru in supplica, e Lui può allora rivelare loro i Suoi pensieri
(Nota4).
Gli Incarnati hanno le stesse facoltà, per natura del sáma; ma la loro percezione è offuscata dallo hröa, dal momento che il loro fëa è unito allo hröa ed il suo normale procedere è attraverso lo hröa, che è in se stesso parte di Eä, senza pensiero. L'offuscamento è in realtà doppio; perché il pensiero deve attraversare un manto di hröa e penetrarne un altro. Per questa ragione negli Incarnati la trasmissione del pensiero richiede un rafforzamento ["strengthening"]. Il rafforzamento può essere per affinità ["affinity"], per urgenza ["urgency"] o per autorità ["authority"].

L'affinità può essere dovuta alla parentela; dato che può aumentare la somiglianza fra uno hröa ed un altro hröa, ed anche fra le relazioni ed i modi di pensare dei fëar che li occupano, la parentela è anche normalmente accompagnata da amore e simpatia. L'affinità può anche scaturire semplicemente dall'amore e dall'amicizia, che è somiglianza o affinità tra fëa e fëa. L' urgenza è impartita da una grande necessità del "trasmittente" (come nella gioia, nel dolore o nella paura); e se queste cose sono in un qualche grado condivise dal "ricevente" il pensiero è ricevuto più chiaramente. L' autorità può anche dare forza al pensiero di colui che ha un dovere verso l'altro, o di un sovrano che abbia un diritto di impartire comandi o di cercare la verità per il bene degli altri.
Queste cause possono rafforzare il pensiero per fargli passare i veli e raggiungere una mente ricettiva. Ma quella mente deve restare aperta, ed almeno passiva. Se, accorgendosi di stare ricevendo un pensiero, la mente si chiude, nessuna urgenza o affinità permetterà al pensiero del trasmittente di entrare.

Infine, anche il tengwesta è diventato un impedimento.
(VIII) Negli Incarnati è più chiaro e preciso rispetto alla ricezione diretta dei pensieri. Usandolo inoltre essi possono comunicare facilmente con gli altri, quando al loro pensiero non è aggiunta alcuna forza: come, per esempio, quando due estranei si incontrano la prima volta. E, come abbiamo visto, l'uso del "linguaggio" diventa presto abituale, così che la pratica dell' ósanwe (scambio di pensieri) ["interchange of thought"] viene trascurata e diventa più difficile.
Così vediamo che gli Incarnati tendono sempre più ad usare o a provare ad usare l'ósanwe solo in caso di grande necessità ed urgenza, e specialmente quando il lambe non sia disponibile. Come quando la voce non può essere udita, il che accade di solito a causa della distanza. Poiché la distanza di per sé non offre alcun impedimento all'ósanwe.

Ma coloro che per affinità potrebbero usare l' ósanwe useranno il lambe anche in prossimità, per abitudine o per preferenza. Eppure possiamo notare come gli "affini" possano comprendere più velocemente il lambe che usano tra loro, ed infatti non tutto ciò che si dicono è espresso in parole. Con meno parole arrivano più rapidamente ad una maggiore intesa. Non ci può essere dubbio che in questi casi sta avvenendo l'ósanwe; perché la volontà di conversare in lambe è una volontà di comunicare un pensiero, e fa aprire la mente. Può essere, naturalmente, che i due che conversano già conoscano parte dell'argomento ed i pensieri dell'altro al riguardo, così che sia sufficiente usare solo allusioni oscure per gli estranei; ma non è sempre così. Gli affini raggiungeranno un'intesa più velocemente degli estranei su argomenti che non hanno mai discusso prima, e percepiranno più velocemente il significato di parole che, per quanto numerose, ben scelte e precise, restano sempre inadeguate.

Lo hröa ed il tengwesta hanno inevitabilmente un effetto sui Valar, quando questi assumono un rivestimento corporeo. Lo hröa offuscherà un po' la forza e la precisione della trasmissione del pensiero, e se l'altro è anch'egli corporeo ["embodied"] ne offuscherà anche la ricezione. Se hanno acquisito l'abitudine al tengwesta, come è possibile per alcuni che hanno ormai l'abitudine ad essere rivestiti, questo ridurrà la pratica dell'ósanwe. Ma questi effetti sono molto minori che nel caso degli Incarnati.

Questo perché lo hröa di un Vala, anche quando è abituale, è molto più soggetto al controllo della volontà. Il pensiero dei Valar è molto più forte e penetrante. E per quanto riguarda i loro rapporti gli uni con gli altri, l'affinità fra i Valar è più grande di quella fra qualsiasi altri esseri; così che l'uso del tengwesta o del lambe non è mai diventato imperativo, e solo per alcuni è diventato un uso comune o una preferenza. E per quanto riguarda i loro rapporti con tutte le altre menti di Eä, i loro pensieri hanno spesso la massima autorità, e la maggiore urgenza.
(Nota5)

Pengolodh poi si occupa degli abusi del sanwe. "Poiché" dice, "alcuni che abbiano letto fin qui, potrebbero già essersi interrogati sulla validità della mia conoscenza, dicendo: Questo non sembra in accordo con la storia. Se il sáma è inviolabile con la forza, come ha potuto Melkor ingannare così tante menti e schiavizzare tanti? O non è forse vero che il sáma può essere protetto ma anche catturato da una forza maggiore? E per questo Melkor, il più grande, e fino alla fine quello che possedeva la volontà più fissa, determinata e spietata, poteva penetrare le menti dei Valar, ma schermarsi da loro, così che anche Manwe trattando con lui può sembrare a volte debole, incauto, ed ingannato. Non è forse così?

"Io dico che non è così. Le cose possono sembrare simili, ma se sono per natura completamente diverse devono essere distinte. Previsione
(IX) ["Foresight"] e predizione (X) ["forecasting"] che è un'opinione fatta ragionando sulla realtà presente, possono essere identiche nei loro risultati, ma sono completamente diverse nel metodo, e devono essere distinte dai Saggi, anche se nel linguaggio di tutti i giorni sia gli Elfi che gli Uomini le chiamano allo stesso modo, come parti della Saggezza" (Nota6).

Allo stesso modo, l'estorsione di segreti da una mente può sembrare essere dovuta alla lettura della mente attraverso la forza ed a dispetto della Nolontà, dato che la conoscenza acquisita in questo modo può a volte sembrare tanto completa quanto può esserlo. Ciononostante non deriva dalla penetrazione della barriera della Nolontà.
Non c'è in effetti alcun axan che la barriera non debba essere forzata, dato che si tratta di un únat, una cosa impossibile da essere o da fare; maggiore è la forza esercitata, più grande sarà la resistenza della barriera della nolontà.
(XI) Ma è un axan universale che nessuno possa direttamente con la forza o indirettamente con la frode prendere da qualcuno ciò che ha diritto di avere e di tenere come proprio.

Melkor ripudiava tutti gli axani. Se avesse potuto, avrebbe abolito (per se stesso) tutti gli únati. In effetti ai suoi inizi e nei giorni della sua maggiore potenza le più rovinose fra le sue violenze derivavano dai suoi tentativi di riordinare Eä così che non ci fossero più ostacoli o limiti al suo volere. Ma questo non poteva farlo. Gli únati restavano, un memento perpetuo dell'esistenza di Eru e della Sua invincibilità, un memento anche della co-esistenza con lui di altri esseri (uguali per discendenza, se non per potere) impenetrabili con la forza. Da qui derivò la sua rabbia incessante ed inappagabile.

Scoprì che l'avvicinarsi palese di un sáma di potere e di grande forza di volontà era sentito dai sáma minori come un'immensa pressione, accompagnata da paura. Dominare con il peso del potere e della paura era ciò che più lui desiderava, ma in questo caso scoprì che non gli era possibile: la paura faceva chiudere più velocemente la porta. Per questo tentò con l'inganno e la segretezza.
In questo fu aiutato dalla semplicità di coloro che non sono coscienti del male, o che non sono ancora abituati ad esso. E per questo motivo è stato detto sopra che la distinzione fra apertura e volontà attiva di accogliere è della massima importanza. Perché lui sarebbe arrivato segretamente ad una mente aperta ed incauta, sperando di carpire parte dei suoi pensieri prima che si chiudesse, ed ancor più di impiantare in essa il suo proprio pensiero, di ingannarla e di vincerne l'amicizia. Il suo pensiero era sempre lo stesso, anche se lo modulava caso per caso (per quanto lo capiva): lui era soprattutto benevolente, era ricco e poteva dare ai suoi amici qualunque dono essi desiderassero; aveva un amore speciale per coloro cui si rivolgeva; ma gli si doveva dare fiducia.

In questo modo riuscì ad entrare in molte menti, rimuovendone la nolontà, e sbloccandone la porta attraverso l'unica chiave, anche se una chiave contraffatta. Eppure questo non era ciò che lui soprattutto desiderava, la conquista dei recalcitranti, la schiavitù dei suoi nemici. Quelli che ascoltavano e non chiudevano la porta erano troppo spesso già inclini a mostrargli amicizia; alcuni (secondo la loro misura) si erano già incamminati su sentieri simili ai suoi, ed ascoltavano perché speravano di imparare e di ricevere cose che li avrebbero aiutati nei loro propositi. (Fu così con quei Maiar che per primi caddero sotto la sua dominazione. Erano già ribelli, ma dato che mancavano loro il potere e la spietatezza di Melkor, lo ammiravano, e vedevano il suo comando come una speranza di effettiva ribellione). Ma coloro che erano semplici ed incorrotti nel "cuore"
(Nota7) si accorgevano subito del suo ingresso, e se davano retta a ciò che il cuore diceva loro, cessavano di ascoltare, lo espellevano, e chiudevano la porta. Erano questi che Melkor maggiormente desiderava sopraffare: i suoi nemici, dato che per lui erano nemici tutti quelli che gli resistevano anche nella più piccola delle cose, o che dichiaravano che qualunque cosa fosse loro e non sua. (XII)

Per questo cercò di trovare mezzi per eludere l' únat e la nolontà. E trovò la sua arma nel "linguaggio" ["language"]. Poiché noi stiamo parlando ora degli Incarnati, gli Eruhíni che lui più di tutti desiderava soggiogare in sprezzo a Eru. I loro corpi, essendo di Eä, sono soggetti alla forza; ed i loro spiriti, essendo uniti ai loro corpi in amore e sollecitudine, sono soggetti alla paura per amor dei corpi. Ed il loro linguaggio, anche se viene dallo spirito o dalla mente, opera attraverso e con il corpo: non è il sáma né il suo sanwe, ma può esprimere il sanwe a modo suo e secondo le sue capacità. Sul corpo e su ciò che lo abita, quindi, è possibile esercitare tali pressioni e tali paure che la persona incarnata può essere forzata a parlare.

Così Melkor pensò nell'oscurità della sua mente molto prima che noi ci svegliassimo. Poiché nei giorni antichi, quando i Valar istruirono gli Eldar appena giunti in Aman riguardo l'inizio delle cose e l'inimicizia di Melkor, Manwe stesso disse a quelli che lo volevano ascoltare: "Dei Figli di Eru Melkor sapeva meno dei suoi pari, poiché dava meno importanza a ciò che dalla Visione avrebbe potuto imparare, come invece abbiamo fatto noi, sulla loro Venuta. Eppure, ora che vi conosciamo nel vostro vero essere, temiamo che sia stato attento ed interessato a tutto ciò che potesse aiutarlo nel suo intento, ed il suo proposito è avanzato più rapidamente del nostro, poiché non è ostacolato da alcuno axan. Dal principio egli fu grandemente interessato al "linguaggio", quel talento che gli Eruhíni avrebbero avuto per natura; ma noi non percepimmo subito la malizia nel suo interesse, poiché molti di noi lo condividevano, ed Aule più di tutti. Ma col tempo scoprimmo che lui aveva creato un suo linguaggio per coloro che lo servivano; ed ha imparato il nostro con facilità. Ha grande abilità in questo campo. Senza dubbio riuscirà a dominare tutte le lingue, anche quella degli Eldar. Per questo, se mai dovesse parlare con voi, state attenti!"

"Ahimè!"
disse Pengolodh, "in Valinor Melkor usava il Quenya con tale padronanza che tutti gli Eldar ne furono incantati, dato che il suo parlare non poteva essere superato, ed a malapena era eguagliato, dai poeti e dai saggi".
Così con inganno, con menzogne, con i tormenti del corpo e dello spirito, con la minaccia di tormentare le persone amate, o con il semplice terrore provocato dalla sua presenza, Melkor ha sempre cercato di forzare gli Incarnati che cadevano in suo potere, e che arrivavano nelle sue mani, a parlare ed a dirgli tutto ciò che sapevano. Ma la sua stessa Bugia generò un'infinita progenie di bugie.

Con questi mezzi egli ha distrutto molti, ha causato indicibili tradimenti, ed ha acquisito conoscenza di segreti a proprio grande vantaggio ed a svantaggio dei suoi nemici. Ma questo non è successo entrando nella mente, o leggendola. No, dato che per quanto grande sia la conoscenza che ha acquisito, dietro alle parole (anche dietro a quelle dette nel tormento o nella paura) resta sempre il sáma inviolabile: le parole non sono in esso, anche se possono provenirne (come grida da dietro una porta chiusa); devono essere giudicate e considerate per la verità che possono contenere. Per questo motivo il Mentitore dice che tutte le parole sono menzogne: ogni cosa che lui ode è trattata attraverso inganni, con omissioni, significati nascosti, ed odio. In questa vasta rete lui stesso, rimasto intrappolato, lotta e si arrabbia, roso dal sospetto, dal dubbio e dalla paura. Non sarebbe stato così, se fosse riuscito a rompere la barriera, ed avesse visto il cuore come è nella sua verità svelata.

Se parliamo infine della "follia" di Manwe e della debolezza ed imprudenza dei Valar, dobbiamo stare attenti a come giudichiamo. Nelle storie, in effetti, possiamo meravigliarci leggendo di come (apparentemente) Melkor abbia ingannato ed adulato gli altri, e di come perfino Manwe sembri a volte quasi un sempliciotto comparato a lui: come se un padre gentile ma sciocco trattasse con un bambino capriccioso che col tempo certamente capirà gli errori che ha commesso. Mentre noi, guardando in avanti e sapendo ciò che avverrà, vediamo ora che Melkor conosceva perfettamente gli errori che aveva commesso, ma si era fissato in essi con l'odio e con un orgoglio al di là del ritorno. Lui poteva leggere la mente di Manwe, dato che la porta era aperta; ma la sua propria mente era falsa, ed anche se la porta sembrava aperta, c'erano al suo interno porte di ferro chiuse per sempre.

In che altro modo poteva andare? Manwe ed i Valar avrebbero forse dovuto rispondere alla segretezza con il sotterfugio, al tradimento con la falsità, alle menzogne con altre menzogne? Se Melkor usurpava i loro diritti, dovevano loro negargli i suoi? Può l'odio sconfiggere l'odio? No, Manwe era più saggio di così; o meglio, essendo sempre aperto a Eru compiva il Suo volere, il che è più che la saggezza. Era sempre aperto perché non aveva nulla da nascondere, nessun pensiero che fosse dannoso per qualcuno conoscere, se lo avesse potuto comprendere. In effetti Melkor conosceva la sua volontà senza neanche chiederla; e lui sapeva che Manwe era legato ai comandi ed alle ingiunzioni di Eru, ed avrebbe fatto quella cosa, o si sarebbe astenuto dal fare quell'altra, in accordo con essi, anche sapendo che Melkor li avrebbe rotti per i suoi propri scopi. Così l'impietoso farà sempre affidamento sulla pietà, ed il mentitore farà uso della verità; poiché se la pietà e la verità sono negate ai crudeli ed ai mentitori, hanno cessato di essere onorate.
(XIII)

Manwe non poteva obbligare Melkor con la durezza a rivelare i suoi propositi, o (se usava le parole) a dire la verità. Se lui avesse parlato dicendo: questa è la verità, doveva essere creduto finché non si fosse provato falso; se avesse detto: farò così, come tu comandi, gli doveva essere data l'opportunità di mantenere la sua promessa
(Nota8).
La forza e la prigionia che furono esercitate su Melkor dal potere unito di tutti i Valar non furono usate per estorcere una confessione (che era inutile); né per obbligarlo a rivelare i suoi pensieri (che era illegale, anche se non inutile). Fu tenuto prigioniero come punizione per i suoi atti malvagi, sotto l'autorità del Re. Potremmo dire così; ma sarebbe meglio dire che fu privato del suo potere di agire per un tempo determinato, prefissato da una promessa, così che potesse fermarsi e considerare se stesso, ed avere così l'unica possibilità che la pietà potesse concepire di pentirsi e fare ammenda. Per la guarigione di Arda, ma soprattutto per la sua stessa guarigione. Melkor aveva il diritto di esistere, ed il diritto di agire e di usare i suoi poteri. Manwe aveva l'autorità di governare ed ordinare il mondo, come poteva, per il benessere degli Eruhíni; ma se Melkor si fosse pentito ed avesse fatto atto di obbedienza ad Eru, gli si doveva restituire la sua libertà. Non poteva essere ridotto in schiavitù, né poteva essergli negata la sua parte. L'ufficio del Re Antico era di mantenere tutti i suoi sudditi nell'obbedienza ad Eru, o riportarli ad essa, ed in quell'obbedienza lasciarli liberi.
Per questo solo alla fine, e solo per espresso comando di Eru ed attraverso il Suo potere, Melkor fu abbattuto e privato per sempre di ogni potere di fare o disfare.

Chi fra gli Eldar pensa che la cattività di Melkor (che fu ottenuta con la forza) sia stata stolta o illegittima? Eppure la decisione di assaltare Melkor, non semplicemente di resistergli, di andare contro la violenza con l'Ira mettendo in pericolo Arda stessa, fu presa da Manwe solo con riluttanza. E considerate: in questo caso l'uso legittimo della forza che cosa ha prodotto di bene? Lo ha rimosso per un po' ed ha sollevato la Terra di Mezzo dalla pressione della sua malizia, ma non ha estirpato il suo Male, poiché non poteva farlo. A meno che, forse, Melkor non si fosse effettivamente pentito
(Nota8). Ma non si pentì, e nell'umiliazione divenne vieppiù vile nella sua vendetta. L'azione più debole ed imprudente di Manwe, sembra a molti, fu il rilascio di Melkor dalla sua prigionia. Da lì vennero grandi perdite e dolori: la morte degli Alberi, e l'esilio e le pene dei Noldor. Eppure attraverso queste sofferenze venne pure, e forse non sarebbe potuta venire in altro modo, la vittoria dei Giorni Antichi: la caduta di Angband e l'ultima sconfitta di Melkor.

Chi può allora dire con sicurezza che se Melkor fosse stato trattenuto in ceppi ne sarebbe scaturito minor male? Anche nella sua diminuzione il potere di Melkor è al di là della nostra comprensione. Eppure il peggio che potesse accadere non è una qualche rovinosa esplosione di disperazione. Il rilascio avvenne in accordo con la promessa di Manwe. Se Manwe avesse rotto la promessa per fini suoi propri, anche se ancora con l'intenzione di fare il "bene", avrebbe intrapreso un passo sul sentiero di Melkor. Quello è un passo molto pericoloso. In quel momento e con quell'atto egli avrebbe cessato di essere il vice-gerente dell'Uno, diventando solo un re che si avvantaggia su un rivale che ha conquistato con la forza. Ed allora preferiamo che ci siano stati i dolori che ci sono effettivamente stati; oppure avremmo preferito che l'Antico Re perdesse il suo onore. Passando così, forse, ad un mondo diviso fra due orgogliosi signori che lottano per il trono? Di questo possiamo essere certi, noi figli di piccola forza: ognuno dei Valar avrebbe potuto intraprendere il sentiero di Melkor e diventare come lui: uno è stato più che sufficiente."


Note dell'autore all' Ósanwe-kenta.

(Nota1)
Qui níra ("volontà" ["will"] come un potenziale o una facoltà) dato che il requisito minimo è che questa facoltà non sia esercitata in rifiuto; un'azione o un atto di volontà è nirme; come sanwe "Pensiero" ["Thought"] o "un pensiero" ["a thought"] è l'azione o un atto del sáma.

(Nota2)
Può essere occupato a pensare e distratto alle altre cose; può essere "rivolto a Eru"; può essere impegnato in una "conversazione col pensiero" con una terza mente. Pengolodh dice: "Solo grandi menti possono conversare con più di uno alla volta; è possibile che molti conversino, ma in quel caso in ogni momento solo uno sta trasmettendo, mentre gli altri ricevono".

(Nota3)
"Nessuna mente, comunque, può essere chiusa a Eru, né contro le Sue ispezioni né contro i Suoi messaggi. Questi ultimi possono non essere ascoltati, ma non si può dire di non averli ricevuti".

(Nota4)
Pengolodh aggiunge: "Alcuni dicono che Manwe, per una grazia speciale data al Re, poteva ancora in qualche misura capire Eru; altri più probabilmente, che egli rimaneva il più vicino a Eru, e che Eru era prontissimo ad ascoltarlo ed a rispondergli".

(Nota5)
Qui Pengolodh aggiunge una nota sull'uso dello hröar da parte dei Valar. In breve dice che anche se all'origine era un "auto-rivestimento" ["self-arraying"], può tendere ad avvicinarsi al concetto di "incarnazione" ["incarnation"], specialmente con i membri minori di quell'ordine (i Maiar). "È detto che più a lungo si usa lo hröa, e sempre lo stesso, maggiore è il legame dell'abitudine, e meno gli "auto-rivestiti" desiderano abbandonarlo. Come l'abbigliamento può cessare di essere solo un adornamento, e diventare (come è detto nelle lingue degli Elfi e degli Uomini) un "abito" ["habit"], un costume consueto. O se fra Elfi e Uomini può essere indossato per mitigare il caldo o il freddo, presto rende il corpo che riveste meno capace di sopportare queste cose quando è nudo". Pengolodh cita anche l'opinione che se uno "spirito" (vale a dire uno non dotato di corpo dalla creazione) usa uno hröa per promuovere i suoi scopi personali, o (ancora di più) per godere delle capacità corporali, scoprirà che gli è sempre più difficile operare senza lo hröa. Le cose che maggiormente legano sono quelle che negli Incarnati hanno a che fare con la vita della hröa stesso, il suo sostentamento e la sua propagazione. Così bere o mangiare sono legami, ma non il deliziarsi nella bellezza di suoni o forme. Più legante ancora è generare o concepire un figlio.
"Non conosciamo gli axani (leggi, regole, che derivano primariamente da Eru) che furono imposti ai Valar riguardo in particolare al loro stato, ma sembrerebbe chiaro che non ci fosse alcun axan contro queste cose. Ciononostante sembrerebbe essere un axan, o forse una conseguenza necessaria, che se sono fatte, allora lo spirito debba restare nel corpo che ha usato, ed abbia le stesse necessità degli Incarnati. L'unico caso conosciuto nelle storie degli Eldar è quello di Melian che divenne sposa di Re Elu-Thingol. Questa certamente non fu un'azione malvagia, né contraria al volere di Eru, ed anche se infine portò dolore, Elfi e Uomini ne furono arricchiti.
"I grandi Valar non fanno queste cose: non generano figli, e neanche mangiano o bevono, tranne che in occasione dell'alto asari, in pegno della loro signoria e della loro presenza in Arda, e per la benedizione del sostentamento dei Figli. Melkor solo, fra i Grandi, divenne infine legato alla sua forma corporea; ma questo avvenne per l'uso che egli ne fece nei suoi tentativi di diventare Signore degli Incarnati, e per le grandi malvagità che compì con il suo corpo visibile. Inoltre egli aveva dissipato i suoi poteri nativi per controllare i suoi agenti e servi, così che alla fine, da solo e senza il loro supporto, divenne una debole cosa, consumato dall'odio ed incapace di restaurarsi nello stato da cui era caduto. Anche la sua forma visibile non riusciva più a controllarla, così che la sua odiosità non poteva più essere mascherata, e rendeva manifesta la malvagità della sua mente. Fu così anche per alcuni dei più grandi fra i suoi servi, come vedemmo in giorni più tardi: si congiunsero indissolubilmente alle forme dei loro atti malvagi, e se quei corpi venivano tolti loro, o distrutti, loro ne erano annullati, finché non riuscivano a costruirsi un sembiante della loro precedente abitazione, con il quale continuare a percorrere la loro malvagia rotta, nella quale si erano fissati".
(Pengolodh qui si riferisce evidentemente a Sauron in particolare, a causa della cui ascesa fuggì infine dalla Terra di Mezzo. Ma la prima distruzione della forma corporea di Sauron è ricordata nelle storie dei Giorni Antichi, nel Lai di Leithian).

(Nota6)
Pengolodh qui elabora (anche se non necessariamente per questo argomento) questo soggetto della "preveggenza". Nessuna mente, asserisce, sa ciò che non è in essa. Tutto ciò che ha sperimentato è in essa, anche se nel caso degli Incarnati, che dipendono dagli strumenti dello hröa, alcune cose possono essere "dimenticate", non immediatamente disponibile al ricordo. Ma nessuna parte del "futuro" è in essa, poiché la mente non può vederlo né può averlo visto: questo, per una mente che sia inserita nel tempo. Una tale mente può imparare il futuro solo da un'altra mente che lo abbia visto. Ma questo significa solo da Eru, o mediatamente da qualche mente che abbia visto in Eru qualche parte dei Suoi propositi (come gli Ainur che ora sono i Valar in Eä). Un Incarnato quindi può conoscere qualcosa del futuro solo attraverso istruzioni ricevute dai Valar, o per una rivelazione che venga direttamente da Eru. Ma ogni mente, sia dei Valar sia degli Incarnati, può dedurre con la ragione ciò che sarà o che potrà essere. Questa non è preveggenza, non lo è anche se può essere più chiara ed anche più accurata degli scorci di una vera preveggenza. Neanche se si è formata nelle visioni avute in sogno, il quale è un mezzo con cui le "preveggenze" si presentano frequentemente.
Menti che abbiano una grande conoscenza del passato, del presente e della natura di Eä possono predire con maggiore accuratezza, e con maggiore precisione quanto più è vicino quel futuro (fatta salva sempre la libertà di Eru). Molto di ciò che viene chiamato "preveggenza" quindi è solo la deduzione di un saggio; e se è ricevuta, come avvertimento o come istruzione, dai Valar, può essere solo la deduzione dei più saggi, anche se a volte può essere una "preveggenza" di seconda mano.

(Nota7)
Enda. Questo lo traduciamo "cuore" ["heart"], anche se non ha alcun riferimento fisico all'organo dello hröa. Significa "centro" ["centre"], e si riferisce (anche se con un'inevitabile allegoria fisica) al fëa o al sáma stesso, distinto dalla periferia dei suoi contatti con lo hröa; autocosciente; dotato della saggezza primordiale della sua creazione, che lo rende sensibile al massimo grado ad ogni cosa nemica.

(Nota8)
Per questa ragione Melkor spesso diceva la verità, ed infatti raramente mentiva senza inserire anche un misto di verità. A meno che non fosse nelle sue menzogne contro Eru; e fu, forse, per queste menzogne che infine gli fu negata la possibilità di ritorno.

(Nota9)
Alcuni pensano che, anche se la potenza del male si sarebbe mitigata, non sarebbe stata annullata neanche da un Melkor pentito; poiché del potere era uscito da lui, e non era più sotto il controllo della sua volontà. Arda era corrotta nel suo più profondo essere. I semi che la mano pianta cresceranno e si moltiplicheranno anche quando la mano non ci sarà più.


Glossario editoriale all' Ósanwe-kenta

Tutte le parole, tranne dove indicato, sono in Quenya.
aquapahtie "privacy" ["privacy"]. Apparentemente composto da aqua- "pienamente, completamente, del tutto, interamente" ["fully, completely, altogether, wholly"] (WJ:392) + *paht-ie "chiusura" ["closed-ness"] (cf. pahta "chiuso" ["closed"] e látie "apertura" ["openness"], più sotto).
asar, pl. asar "tempo stabilito, festività" ["fixed time, festival"] (WJ:399).
avanir "nolontà" ["unwill"]. Apparentemente composto da ava-, che esprime rifiuto o proibizione (cf. WJ:370-371 s.v. *ABA), + -nir "volontà" ["will"] (cf. níra più sotto).
axan, pl. axani "legge, regola, comandamento; che derivi primariamente da Eru" ["law, rule, commandment; as primarily proceeding from Eru"]. Adottato dal Valarin akasan "Lui dice" ["He says"], in riferimento a Eru (WJ:399).
enda "centro, cuore" ["centre, heart"]; di persone, senza riferimento all'organo fisico, ma al fëa o al sáma stesso, distinto dai suoi contatti con lo hröa. Cf. ÉNED- "centro" ["centre"] (LR:356).
Eruhíni "figli di Eru" ["Children of Eru"], cioè Elfi e Uomini (WJ:403).
fëa, pl. fëar "anima, spirito interiore, di un essere incarnato" ["soul, indwelling spirit, of an incarnate being"] (MR:349,470). Vedi anche WJ:405.
hröa, pl. hröar "corpo (di un essere incarnato)" ["body (of an incarnate being")"] (MR:350,470). Vedi anche WJ:405.
indo n. "stato" ["state"], forse specificamente "stato della mente (sáma)" ["state of the mind (sáma)"]. In "LQ 2" (MR:216,230 n.16) indo è usato come "mente" ["mind"], che qui è la traduzione di sáma; mentre in The Etymologies c'è indo "cuore, umore" (LR:361 s.v. ID-).
kenta "investigazione" ["enquiry"]. Cf. Essekenta *"ricerca del nome" ["name-enquiry"] (MR:415). Cf. la radice verbale ken- "vedere, osservare" ["see, behold"] (MC:222) e l'elemento cenyë "vista" ["sight"] in apacenyë "previsione" ["foresight"] e tercenyë "intuito" ["insight"] (MR:216), che suggeriscono per kenta un significato letterale "guardare (dentro)" ["looking (into)"] qualcosa.
(XIV)
lambe Cf. la voce lambe nel glossario editoriale all'estratto da Quendi and Eldar App. D, sopra (p. 12) [N.d.S.: si fa riferimento ad un altro saggio contenuto nello stesso numero di Vinyar Tengwar, il 39].
láta agg. "aperto" ["open"]. Cf. LAT- "svelarsi" ["to lie open"] (LR:368).
látie "apertura" ["openness"].
latya "apertura" ["opening"].
Mirröanwi "Incarnati" ["Incarnates"], letteralmente "quelli messi nella carne (hröa)" ["those put into flesh (hröa)"] (MR:350).
níra n. "volontà, come potenziale o facoltà" ["will, as a potential or faculty"]. Cf. S. aníra "(lui) desidera" ["(he) desires"] (SD:128-29)..
(XV)
nirme "l'azione o un atto del níra" ["the action or an act of níra"].
ósanwe "comunicazione o scambio di pensiero" ["communication or interchange of thought"]. Apparentemente composto dal prefisso o- "usato in parole che descrivono l'incontro, l'unione, la giunzione di due cose" (WJ:367 s.v. *WO) + sanwe (q.v.).
pahta agg. "chiuso" ["closed"]. Cf. aquapahtie sopra.
sáma, pl. sámar "mente" ["mind"].
sanwe "Pensiero; un pensiero; come l'azione o un atto del sáma" ["Thought; a thought; as the action or an act of sáma"]. Cf. ósanwe sopra.
tengwesta Cf. la voce tengwesta nel glossario editoriale all'estratto da Quendi and Eldar App. D, sopra (p. 14) [N.d.S.: si fa riferimento ad un altro saggio contenuto nello stesso numero di Vinyar Tengwar, il 39].
únat, pl. únati "una cosa impossibile a essere o a essere fatta" ["a thing impossibile to be or to be done"]. Apparentemente composto da ú- + nat "cosa" ["thing"] (cf. LR:374 s.v. NA 2 -). The Etymologies dà il prefisso Q. ú- come significante "non, un-, in- (solitamente in senso cattivo)" ["not, un-, in- (usually in a bad sense)"] (LR:396 s.v. UGU-), ma la forza di ú- è maggiore qui di quanto convenuto in quelle glosse isolate. Comparare la distinzione fra avaquétima "da non dire, che non deve essere detto" ["not to be said, that must not be said"] e úquétima "indicibile, impossibile da dire, esprimere in parole, o impronunciabile" ["unspeakable, impossible to say, put into word, or unpronunceable"] (WJ:370 s.v. *ABA). Cf. la voce ú- nel glossario editoriale all'estratto da Quendi and Eldar App. D, sopra (p. 14) [N.d.S.: si fa riferimento ad un altro saggio contenuto nello stesso numero di Vinyar Tengwar, il 39]


Note editoriali

(I) È una grossa tentazione quella di identificare questo redattore, e quello di Quendi and Eldar, in Ælfwine, il marinaio anglosassone traduttore e commentatore di altre opere di Pengolodh, come il Quenta Silmarillion (LR:201, 203-4, 275 sgg.) e, considerevolmente, del Lammas B (cf. LR:167).

(II) Mentre il Lammas ‘Conto delle Lingue' di Pengolodh è qui, nella subcreazione, lo stesso lavoro che il Lhammas (il testo pubblicato in The Lost Road), sembrerebbe che si riferisca ad una versione non scritta (o, in ogni caso, non più esistente) di quest'opera, che da quella differisce in alcuni punti. Il Lhammas pubblicato, per esempio, non finisce con una discussione sulla "trasmissione diretta del pensiero", come invece il presente testo asserisce del Lammas; e la Note on the ‘Language of the Valar' che conclude Quendi and Eldar, considerata un "sommario" dei commenti di Pengolodh all'inizio del Lammas (WJ:397), è molto più lunga e più dettagliata rispetto alla breve e generica frase che inizia il Lhammas (LR:168). (Almeno un riferimento contemporaneo al Lammas può, però, essere al Lhammas esistente: vedi WJ:208-9 n. §6).

(III) Nel suo campo rimarchevolmente naturale, morale e filosofico, l' Ósanwe-kenta ha anche forti affinità con altri scritti, similmente filosofici e ad esso contemporanei, pubblicati in Morgoth's Ring: per esempio Laws and Customs among the Eldar, o l' Athrabeth Finrod an Andreth, e molti dei testi più brevi contenuti nella parte V, " Myths Transformed ". Di questi, in particolare connessione con il presente saggio sono i testi II (MR:375 sgg.), VI Melkor Morgoth (390 sgg.) e VII Notes on the motives in the Silmarillion (394 sgg.), tutti in qualche modo riguardanti le motivazioni ed i metodi di Melkor ed i suoi rapporti con Manwë e gli altri Valar ed Incarnati. L'inizio della parte (ii) di quest'ultimo testo (398 sgg.) è specialmente degno di nota; anche se molto più breve e meno dettagliato dell' Ósanwe-kenta, si occupa pure di "trasferimento del pensiero" e di molti degli stessi argomenti filosofici che sono discussi nel presente testo.

(IV) Il primo elemento di questo titolo in Quenya ha un accento sopra la vocale iniziale in ogni altro caso nel testo di Tolkien.

(V) In questa ed in ogni altra occorrenza seguente, "Eruhíni" è una correzione di Tolkien da un precedente "Eruhin" (cf. MR:320)

(VI) Tolkien ha sostituito "vuole" ["willing"] con "intende" ["intending"] mentre scriveva a macchina.

(VII) Il concetto della Corruzione di Arda fu molto elaborato da Tolkien negli scritti coevi pubblicati in Morgoth's Ring (per i molti riferimenti vedi MR:455). Cf. anche WJ:401.

(VIII) Tolkien ha scritto "un impedimento" sostituendo "una barriera".

(IX) Cf. la discussione sugli essi apacenyë "nomi preveggenti" ["names of foresight"], dati da una madre a suo figlio nell'ora della sua nascita come indicazione di "una preveggenza speciale del suo fato" (MR:216).

(X) Tolkien ha scritto "predizione" ["forecasting"] a margine, come sostituzione per un "predizione" ["predicting"].

(XI) Con questa asserzione dell'impossibilità di forzare la penetrazione della mente, confrontare il primo paragrafo della parte (ii) delle Notes on motives in the Silmarillion (MR:398-399), dove sembrerebbe che un tale atto sia possibile, anche se proibito e, anche se fatto per propositi "buoni", criminale.

(XII) Con la discussione dei metodi ingannevoli impiegati da Melkor per entrare attraverso la porta del sáma è interessante confrontare la contemporanea descrizione dei suoi tentativi falliti di adulare, lusingare, e tentare Fëanor per permettergli di entrare attraverso la porta (fisica) di Formenos, nella seconda fase di espansione del capitolo del Quenta Silmarillion "Of the Silmarils and the Unrest of the Noldor" (MR:280 §54, anche S:71-72).

(XIII) Questa frase originariamente finiva: "hanno cessato di essere [- e?] sono divenute semplice prudenza".

(XIV) Basandosi sulla traduzione precedentemente pubblicata di Ósanwe-kenta come "Comunicazione del Pensiero" (MR:415), ósanwe e kenta erano stati in passato rispettivamente interpretati, erroneamente, come "pensiero" e "comunicazione" (per es. VT34:29-30).

(XV) È stato precedentemente suggerito che il S. aníra dovesse essere analizzato come an- + íra (derivandolo dalla base ID- "cuore, desiderio, richiesta" ["heart, desire, wish"], LR:361); questo sembra ancora possibile, ma il Q. níra suggerisce un'analisi alternativa come a- + níra.