Il presente testo merita una menzione di assoluto rilievo nella raccolta di Eldalië e dell'Accademia Tolkieniana, in quanto si deve all'opera di uno dei più autorevoli conoscitori italiani dell'opera tolkieniana: parliamo di Quirino Principe, che fu il curatore delle primissime edizioni nostrane delle opere del Professore, e che fornì un generoso contributo al loro successo - a pochi anni dall'infruttuoso tentativo di un altro editore. Il prezioso documento è stato raccolto per noi da Azariel.
L'avvento di Tolkien in Italia è una storia da narrarsi in breve, tutt'altro che complicata per ciò che riguarda i fatti puri e semplici. È molto intricata, e richiederebbe un discorso lungo e analitico, se la poniamo in relazione con le controversie ideologiche degli anni Settanta e Ottanta, e con gli indecorosi tentativi di strumentalizzazione che sono stati messi in atto di recente da varie parti. Per fortuna mia e dei lettori, ho il compito di parlare soltanto del primo aspetto, anche se non giuro di non sfiorare mai il secondo.
Il caso, che mi è stato benevolo, ha voluto che la vicenda editoriale di John Ronald Reuel Tolkien in Italia sia in gran parte legata al mio lavoro. Era, credo, il 1964 quando mi fu noto per la prima volta il nome dello scrittore anglo-sudafricano, e non per The Lord of the Rings bensì grazie a una citazione che fuggevolmente, in un libro sulle poetiche della fiaba, chiamava in causa Tree and Leaf. Dell'opera maggiore udì parlare Elémire Zolla nel 1968. Ne fui molto incuriosito, e decisi che avrei letto The Lord of the Rings non appena fosse possibile. Nessun presentimento, allora, di ciò che avrebbe riempito la mia esistenza per anni.
Nel 1969 ero impegnato part time alla Garzanti, come redattore di dizionari e di enciclopedie nella sezione "Grandi Opere" diretta da Giorgio Cusatelli, più tardi divenuto eccellente maestro di germanisti all'Università di Pavia. Onoravo quell'impegno dal 1962, l'anno in cui da Gorizia mi ero trasferito a Milano. Dal 1964 ero professore di ruolo in un liceo classico milanese, il "Manzoni". Lavoravo negli uffici di via della Spiga nel pomeriggio, mentre la mattina insegnavo. Sorvolo sui rapporti che l'editore Livio Garzanti riusciva a intrattenere non soltanto con me ma con qualsiasi redattore laureato e dotato di idee passabilmente chiare: rapporti nevrotici e instabili, aleatori e sempre periclitanti, umorali e varianti da una predilezione ostentata a un odio freddo e umiliante, con alti e bassi sovente ripetuti a ciclo nell'arco di una sola giornata. L'autunno 1969 era stato una fase aurea: ero stato "promosso" per volontà dello stesso Garzanti, e divenuto coordinatore della sezione storica dell'Enciclopedia Europea allora in gestazione. Per la prima volta in vita mia avevo avuto un ufficio mio, una scrivania mia e persino una segretaria (che mi odiava, ma allora non lo sapevo). Nel tardo pomeriggio di venerdì 12 dicembre uscii dalla sede di via della Spiga alle 19.30 (ostentavo un piglio da stakanovista), percorsi via Manzoni e vidi una folla agitata dinanzi alla Libreria Feltrinelli. Il muro esterno era tappezzato da giornali della sera che annunciavano la strage di piazza Fontana. La mattina dopo, al Liceo, si discusse dell'avvenimento con toni arroventati e con acri veleni ideologici. Nel pomeriggio andai alla Garzanti, e verso le 17.30 arrivò negli uffici Livio Garzanti, che imponeva spesso la propria presenza parlando con i dipendenti di argomenti a ruota libera, amando ascoltarsi e dando libero sfogo ai propri umori. Entrò, assunse un'aria cordiale, domandò che cosa ne pensassimo, finse d'interessarsi alle nostre opinioni, e infine, rivolto a me, proclamò con voce tagliente: "Dottor Principe, secondo me sono stati i suoi amici, i terroristi altoatesini". Sono notoriamente impulsivo e violento. Senza riflettere neppure per una frazione di secondo, sollevai in alto la scrivania su cui avevo collocato qualche settimana prima - all'apice delle mie fortune garzantiane - un barattolo con penne e matite e la fotografia di mio figlio appena nato, e la lasciai cadere con fragore. Il piano della scrivania si spaccò in due, la fotografia andò in mille pezzi, penne e matite si sparsero crepitando sul pavimento. Afferrai la mia cartella e a grandi passi, con l'ira che mi devastava, scesi le scale e in pochi istanti fui sulla strada. Non misi mai più piede in quell'edificio, e lasciai là lo stipendio dell'ultimo mese.
Perché ho narrato tutto questo? Sembrerà strano, ma devo a quell'atto violento e a quella scrivania infranta il mio destino tolkieniano. L'ambiente editoriale milanese è discreto e riservato. Cinque minuti dopo, in tutte le case editrici della città si parlava del mio gesto, gonfiandolo e variandolo a dismisura. Il giorno dopo mi telefonò Alfredo Cattabiani, che avevo conosciuto fortuitamente due mesi prima. Commentò brevemente l'inqualificabile frase di Livio Garzanti, e mi propose di entrare, come consulente e redattore, nella casa editrice che proprio in quei giorni stava nascendo e che era stata ideata da Edilio Rusconi. Fu Cattabiani, uomo di altissima qualità intellettuale, colui che fondò di fatto la "Rusconi Editore", più tardi denominata "Rusconi Libri"; colui che la organizzò e articolò, facendone una protagonista della cultura italiana per almeno quindici anni, prima che una decadenza tutt'altro che inevitabile, dovuta esclusivamente all'avversione che essa suscitava in Alberto Rusconi figlio di Edilio, la conducesse alla morte. Ad essere precisi, si trattava almeno formalmente di una "rifondazione": era esistita negli anni Sessanta la Rusconi & Paolazzi, che aveva pubblicato un numero esiguo di buoni libri, ma senza una linea riconoscibile, e poi si era arenata. Ad essere meno ufficialmente precisi e più veritieri, l'editrice messa in piedi e governata con mano ferma da Cattabiani era tutt'altra cosa: una cosa nuova, e in quel momento storico inattesa e a giudizio di alcuni scandalosa, poiché politicamente e culturalmente scorrettissima, tale da scontentare la "sinistra" ma anche (e forse più) la "destra". Pongo sempre tra virgolette questi termini sciocchi e banali che rispondono a metafore puramente segnaletiche e sono assolutamente privi di qualsiasi significato.
Intelligentemente, Cattabiani scelse in principio un numero ristrettissimo di collaboratori. Si trattava per lo più di consulenti: fra essi, i più attivi erano Elémire Zolla, Augusto Del Noce, Rodolfo Quadrelli, io stesso. Ma soltanto io, nei primi due anni di vita della Rusconi, lavorai sia pure part time in sede. Nell'edificio di via Vitruvio 43 eravamo in quattro: Cattabiani, la segretaria tuttofare Maura Bastiglia (i visitatori, vedendola, rimanevano a bocca aperta per qualche minuto, tanto era bella), l'indimenticabile Lorenzo Fenoglio, leggendario e onnisciente editor e correttore di bozze e tante altre cose insieme, e io. Poca brigata, vita beata.
Era la fase progettuale. In poche settimane si costituì il primo nucleo del catalogo Rusconi. Cattabiani volle realizzare alcuni suoi antichi amori, fra cui Heschel, Sedlmayr, Reck-Malleczewen, le Soirées di Joseph de Maistre. Quadrelli propose alcuni libri di Demant, di Muggeridge e di Voegelin per la collana tascabile "Problemi attuali". Io intervenni proponendo libri miei, che avrei pubblicato a partire dai primi mesi del 1970. Zolla suggerì autorevolmente alcune opere fondamentali: Heliopolis di Ernst Jünger e Il significato della musica di Marius Schneider (entrambi curati da me), e, rendendosi conto della mole di lavoro che ciò avrebbe implicato, The Lord of the Rings di Tolkien. Ma da parte di Cattabiani non ci fu alcuna resistenza, grazie a una circostanza fortunata: egli aveva già, sugli scaffali del suo studio, l'edizione originale in lingua inglese pubblicata dalla Allen & Unwin di Londra, e per giunta possedeva il dattiloscritto completo (e di immani dimensioni) della traduzione italiana del Signore degli Anelli (d'ora in poi userò il titolo nella nostra lingua) realizzata da Vicky Alliata di Villafranca, che era quindicenne quando l'aveva ultimata. Tanto di cappello, malgrado le acerbità, le ingenuità e gli errori di scelta commessi dalla bella signorina dallo straordinario talento. Non basta: Cattabiani aveva nel suo ufficio anche una copia dell'ormai mitica edizione del I volume, La compagnia dell'Anello, unica parte edita della traduzione della Alliata, uscita presso Ubaldini nel 1967 e rimasta senza seguito dopo avere venduto in tutto qualche decina di copie. Come mai Cattabiani era in possesso dei tre oggetti, edizione inglese, dattiloscritto della traduzione, I volume ubaldiniano? Semplice: quando nell'ambiente editoriale si era sparsa la voce che sarebbe nata la Rusconi editore, che Cattabiani (la cui vocazione intellettuale a favore della Tradizione, della fiaba, del mito era nota) ne sarebbe stato il direttore e il fondatore di fatto, e che Zolla era previsto come uno dei principali consulenti, Ubaldini aveva "regalato" al caro Alfredo, allora poco più che trentenne, tutto il materiale che, a mo' di nobile relitto, testimoniava il fallimento dell'impresa tolkieniana sub specie Ubaldinorum. "Per me è stato un disastro: se ti interessa, tutto questo è tuo e fanne quel che vuoi". Cattabiani aveva fiutato la grandezza possibile dell'esito, e vale la pena osservare che, sin dalla prima apparizione rusconiana del capolavoro di Tolkien, Il Signore degli Anelli fu per Rusconi una miniera d'oro, il best seller per eccellenza e senza fluttuazioni di fortuna presso il pubblico, anzi, semmai, in progressiva crescita.
Cattabiani chiese il parere di Zolla e il mio. Zolla, più che confermare il proprio suggerimento, ordinò imperiosamente che il libro fosse pubblicato in edizione italiana, pena l'anatema, e propose che fossi io il curatore totale. Ne fui entusiasta. Quando mi fissarono i tempi di consegna, inorridii e mi disperai: pochi mesi. Poi mi rinfrancai e mi misi all'opera, rinvigorito anche dalla pubblicazione presso Rusconi, nel febbraio 1970, del mio primo libro, Vita e morte della scuola (andò benissimo, fu subito esaurito, ebbe una seconda edizione e un'ulteriore ristampa, e se ne parlò molto, con entusiasmo da parte dei tradizionalisti, con apprezzamento a denti stretti da parte dei marxisti e dei demoproletari, con vituperio e volgari insulti da parte dei cattolici, ciò che mi rese felice). Acquisito un minimo di prestigio d'autore, ebbi l'incarico d'incontrare Vicky Alliata, venuta espressamente da Roma, per un colloquio. Ammiravo la Alliata da tempo, come traduttrice: anch'io sono traduttore, e di innumerevoli scritti fra cui molti libri, e considero quel mestiere uno fra i più nobili e decisivi nella storia della specie umana. Sentivo grande rispetto per quella ragazza, che all'inizio del 1970 aveva diciotto anni: era veramente brava, e vorrei avere il suo talento e la sua velocità nel tradurre, per non parlare della sua mirabile conoscenza della lingua inglese e di questo o quello slang. Ma ero preoccupato, poiché in nome della verità avrei dovuto dire alla giovanissima principessa che molte sue soluzioni traslatorie erano inaccettabili. Il punto più dolente era l'eccesso di italianizzazione, che tendeva a trasformare la prosa italiana del Signore degli Anelli in una sorta di mega-albo di Walt Disney. Mi limito a tre esempi tipici, topici e tipologici (l'assonanza con "Topolino" è puramente casuale).
I Baggins, nella traduzione Ubaldini e nel resto del dattiloscritto, erano divenuti "i Sacconi": brutto e semanticamente sbagliato, poiché l'onomastica fuori dal tempo e dello spazio poteva e doveva essere adottata nelle parti del libro ambientate fra gli Elfi, o a Brea, mentre nelle pagine ambientate nella Contea occorreva qualcosa d'inglese che alludesse alla similarità tra la Contea medesima e, che so, il Galles, la campagna britannica, i paesaggi di Thomas Hardy o di Mentague Rhodes James. Benissimo "i Serracinta", famiglia di contorno, benissimo lo "scattanello", ballo simpatico ma un po' troppo sfrenato, ma i Baggins dovevano rimanere Baggins, per non scivolare in un'aura troppo realistica e familiare. I Serracinta si limitano a mangiare e a bere, come nella bassa padana; i Baggins, vivaddio, sono quelli che contendono il tesoro a Gollum, che lottano contro Shelob e contro i cavalieri neri. Non prendiamoci troppe confidenze con loro.
Secondo esempio: Thorin Oakenshield era stato trasformato dalla Alliata in "Torinio Ochescudo". Soluzione orripilante, e soprattutto fuorviante, che butta via imperdonabilmente la semantica implicita nel bel nome inventato da Tolkien. Restaurai immediatamente i significati, decidendomi per "Thorin Scudodiquercia", la qual cosa ha un vago sentore araldico che ben si addice ai Nani tolkieniani, per lo più impettiti e vanitosi oltre che autenticamente coraggiosi e generosi. (Io stesso sono un nano, e mi riconosco in simili vizi e virtù).
Terzo esempio, e questa è davvero grossa. Merry era diventato, manu alliatensi, "Felice": insomma, traduzione letterale. Poteva anche andare, ma come si poteva poi giustificare il fatto che "Merry" (lo si dice nel testo) fosse il diminutivo di "Meriadoc" ? Un errore madornale. Restaurai la forma originale. E via dicendo. Avrei reso ragione delle mie scelte correttive o restauratrici nella prefazione del curatore che figura all'inizio dell'edizione italiana.
Vicky Alliata disdisse più volte l'appuntamento, e finalmente venne a Milano al principio dell'estate. L'abbigliamento dell'aristocratica diciottenne era quasi da spiaggia: la gonna era una sottile striscia di pelle annodata alla vita, e si armonizzava con il resto, e, malgrado tutto, con eleganza, incredibile dictu. Entrò, sedette, accavallò le gambe sprofondata in una poltrona, sì che non sapevo dove guardare. Per tutto il colloquio fissai più o meno il soffitto. Mi accorsi subito che la traduttrice non opponeva alcuna resistenza alle mie angosciate osservazioni. Non si offese per nulla e accettò tutto. Era svagata, languida, mondana, ciarliera, simpaticissima, cordialona. Liquidò la mia problematica traslatoria in pochi secondi, e preferì chiedermi consiglio su come trovare casa a Milano. Non sapevo come aiutarla. Mi propose di accompagnarla da qualche antiquario per scegliere i mobili: cominciai a sudare freddo, trattandosi di operazione che mi ripugna anche quando riguarda me. Si accomiatò, e mi telefonò qualche giorno dopo per annunciarmi festante che da un "rigattiere" aveva trovato bellissimi mobili antichi "per niente" (lei diceva: "per nìente", con l'accento tonico sulla ì). Cinguettando, mi disse: "Vediamoci presto, chiacchieriamo, magari scambiamoci idee su Tolkien. Le telefonerò". Non la vidi mai più in vita mia, né so dove ora ella viva. So che in quei tempi tenne una rubrica mondana sullo "Specchio" e più tardi andò in Medio Oriente per scrivere un libro sugli harem. È una delle persone più amabili che io abbia mai conosciuto. Eppure, sentii sollievo quando vidi che non avrei lavorato con lei a fianco a fianco.
Libero da imbarazzanti concorrenti e da un'ingombrante partner, mi misi all'opera sistematicamente. Il testo di Tolkien mi sommerse, mi assorbì, mi inabissò Rividi interamente la traduzione, producendo migliaia di schede topiche e casistiche. Mio figlio, allora di due anni, crebbe e cominciò a parlare in modo logico-sintattico sulla base di una materia tolkieniana. Per lui inventavo fiabe con i personaggi del Signore degli Anelli, soprattutto quelli malvagi e negativi che sono i più affascinanti. Poiché mi riesce facile disegnare, dipingere e scolpire, fabbricai per il mio bambino decine di statuine di creta o di Das, accuratamente dipinte e smaltate, che raffiguravano Frodo, Bilbo, Gandalf, Smaug, Ancalagon, Sauron, Gollum, Galadriel, Aragorn, eccetera. Mi strozzai durante l'estate, rinunciando anche a un solo giorno di vacanza, alle notti, alle domeniche: un inferno, un carcere. Riscrissi da cima a fondo le intricate appendici, per adattarle al lettore italiano. Disegnai la cartina che si trova tuttora nell'edizione Bompiani, erede di Rusconi. Passavo a Fenoglio cento pagine per volta: Fenoglio le inviava in tipografia, sicché già correggevo le prime e seconde bozze e magari le cianografiche dei sedicesimi da pagina 1 a pagina 800 mentre ancora lavoravo sul dattiloscritto della Alliata o rielaboravo le appendici. Consegnai l'ultima infornata ai primi di settembre. Si finì di stampare l'edizione italiana del Signore degli Anelli, da me curata, il 18 ottobre 1970, presso la Cromotipia E. Sormani in via Solari (angolo con via Montevideo) a Milano. The Return of the King, terza e conclusiva sezione del romanzo tolkieniano, era stata pubblicata da Allen & Unwin nel 1955. Quindici anni separano l'apparizione dell'opera originale dalla nascita dell'edizione italiana da me curata.
Nacque una controversia interna alla Rusconi. Lo zelante e un po' interventista Fenoglio aveva trasformato gli "Elfi" in "Gnomi", restaurando la soluzione della Alliata, da me modificata in "Elfi" sin dalla prima fase del mio lavoro, e male interpretando un'osservazione di Cattabiani. A me non era stato detto nulla. Quando lo seppi andai su tutte le furie e volli intervenire, ma era troppo tardi poiché si era già alle cianografiche. Quel che è peggio, Fenoglio, che venerava il dogma della "uniformazione", modificò anche l'introduzione di Elémire Zolla, in cui giustamente si parlava di "Elfi". Questa volta fu Zolla ad andare in collera, e ritenendomi responsabile se la prese con me. Non mi fu possibile spiegarmi, dato il carattere dell'illustre saggista, e così Zolla e io non ci parlammo più vita natural durante. Peccato! L'inconveniente trovò presto rimedio: la prima tiratura rusconiana del Signore degli Anelli andò a ruba, e bastò poco tempo per stamparne un'altra con l'opportuna correzione di "Gnomi" in "Elfi".
Sfioro, come avevo minacciato, questioni non propriamente editoriali. L'apparizione del Signore degli Anelli suscitò equivoci odiosi e un ridicolo imbarazzo. La "destra" decise che quel libro e quell'autore le appartenevano: una convinzione che continua nei decenni. In primo luogo, Tolkien non appartiene ad alcuni se non a sé stesso. In secondo luogo, se si vuol parlare di consanguineità intellettuale e poetica, può essere veramente apparentato per sangue con Tolkien soltanto chi combatta senza compromessi e senza timori in nome dell'Occidente, contro ogni ecumenismo, contro ogni vile terzomondismo, contro ogni religione che imponga un comportamento cosiddetto "etico". Tutta l'opera di Tolkien è felicemente pagana, lontanissima dalla cultura cristiana e da qualsiasi altra cultura confessionale, celebratrice della qualità innata contro le miserabili valutazioni della morale. Il panorama della cultura italiana, eccettuati rari individui numerabili sulle falangi di un dito, non offre alcunché di compatibile con Tolkien. Oggi l'equivoco mostra la corda. La sciocca presunzione e arroganza della "destra" nel far proprio Tolkien è contraddetta dalla tendenza sempre più accentuata, nella "destra", a privilegiare tutto ciò che è non-occidentale e anti-occidentale, tutto ciò che è afroasiatico o islamico o "tradizionale" (ripugnante aggettivo!). Da un'altra sponda, la cultura cosiddetta "di sinistra" prese le distanze mostrando però un vivo desiderio di ridurle non appena fosse possibile. Esemplare resta nella memoria l'articolo di Umberto Eco, La parabola del buon reazionario, uscito sull'"Espresso" nel dicembre 1970: vi si descriveva l'editrice Rusconi come un killer mascherato da buon samaritano, esponente di una "destra" colta e non violenta, presentabile in pubblico e persino seducente, e Tolkien era visto come l'esperimento strategicamente più astuto di questo maquillage rusconiano. Più perplesso, non cinico come Eco, di conseguenza più attento e pronto all'apprezzamento, fu Tito Perlini su una colta e seriosa rivista dell'ultrasinistra, all'inizio del 1971: Rusconi era un ircocervo, e nella sua sembianza proteiforme si nascondeva un'ammirevole abilità di proposte culturali. Proporre un testo inattaccabile (così Perlini) qual è il romanzo di Tolkien era stata una mossa magistrale. Perlini lo scriveva con disappunto, rendendo all'avversario (?) l'onore delle armi.
Infame e ridicolo ad un tempo è stato il tentativo di annettersi Tolkien da parte della cultura cattolica. Negli anni Ottanta, l'arcivescovo di Bologna indisse un convegno dedicato al corpus tolkieniano e in particolare al Signore degli Anelli. Le interpretazioni espresse negli interventi erano a senso unico: io, naturalmente, non fui invitato. Si ignorò la mia esistenza. Non essendo stato presente, posso soltanto immaginare quel convegno: ci sarà stato di che divertirsi. Simili tentativi da parte di settori del mondo cattolico sono divenuti numerosi da allora. Oggi, il desiderio di dimostrare che Il Signore degli Anelli è un grande testo cristiano è addirittura spudorato: non c'è, nel grande libro di Tolkien, né esiste in qualsiasi altro libro tolkieniano, il minimo riferimento alla religione, al cristianesimo o a qualsiasi altro culto. Una volta espressi questa mia considerazione a un alto prelato, il quale mi fece notare che nel discorso di Faramir a Frodo si dice. "La verità è figlia del tempo", il che fa venire in mente "veritas filia temporis", tre parole che, come pretendeva il porporato cattolico, "vengono dai Vangeli" [!!!]. Da quale Vangelo, da quale capitolo e versetto, domandai all'Eminenza. Vidi perplesso il coltissimo pastore d'anime. In realtà, quelle parole non sono scritte in un testo cristiano né religioso purchessia, bensì in un passo di un antico scrittore latino che più pagano non potrebbe essere (Aulo Gellio, Noctes Atticae, XII, 11, 2 ). Del resto, per avere la misura di quanto sia arrogante e velenoso questo atteggiamento, si pensi a come la pubblicistica cattolica diffamò a suo tempo l'onesta e laica biografia di Tolkien scritta da Daniel Grotta (1976) e pubblicata in Italia da Rusconi (1983); la sprezzante liquidazione recensoria era il movente da cui partire per vantare i pregi della biografia di Humphrey Carpenter uscita presso Ares (l'editoriale dell'Opus Dei) e ora ripubblicata da Fanucci.
Altre case editrici, colpite dal successo culturale e commerciale del Signore degli Anelli, s'incamminarono sulla via dell'emulazione e dello scavo. Come Wagner quando ideò Der Ring des Nibelungen (anche qui un anello: una mera coincidenza o un archetipo narratologico?) e procedette a ritroso mediante una catena di antefatti e antefatti degli antefatti, così Tolkien, negli anni Sessanta, aveva scritto una serie di testi che idealmente andrebbero letti "prima" del Signore degli Anelli, come per esempio Le avventure di Tom Bombadil (1962). Esistono però anticipazioni reali, il cui ordine cronologico di scrittura corrisponde alla logica della successione narrativa. The Silmarillion, libro fondante e "arcaico" che espone sistematicamente i miti impliciti in tutti gli altri testi del ciclo Hobbit compreso The Lord of the Rings, fu iniziato da Tolkien già nel 1917, quando egli era venticinquenne (era nato a Bloemfontein in Sudafrica domenica 3 gennaio 1892). Egli vi lavorò per tutta la vita, e quando morì il 2 settembre 1973 (ancora una domenica, giorno fatale per lui!) in un ospedale di Bournemouth, in terra britannica, non era riuscito a dargli un assetto definitivo. L'opera fu completata e data alle stampe da Christopher Tolkien, figlio dello scrittore, nel 1977.
Ma prima di The Lord of the Rings, Tolkien aveva prodotto un testo assolutamente compiuto e perfetto, pietra miliare nella creazione della Terra di Mezzo, della Contea, di Numenor e delle varie stirpi, e immediato antefatto all'opera maggiore: il raffinatissimo The Hobbit (1936-1937), primo frutto della fantasia "elfica" di Tolkien ad essere edito. L'editrice milanese Adelphi ne pubblicò nel 1973 la traduzione italiana, realizzata da Elena Jeronimidis Conte. Proprio Lo Hobbit, libro importantissimo nella sfera tolkieniana, sfuggì dunque a Rusconi, malgrado i miei fermi consigli che ne suggerivano l'edizione italiana. Come mai? Fu, forse, uno strano capriccio di Zolla, che influì su Cattabiani; una stecca un po' malinconica fra gli accordi armoniosi della rusconiana età dell'oro. Ce ne consolò la preziosa accuratezza dell'edizione Adelphi. Eppure, eppure... Bella, elegante, vivace, la traduzione adelphiana è maculata da strani errori di gusto, isolati ma vistosi. Ne segnalo uno, terribile. La Jeronimidis rese il nome del drago Smaug con "Smog", regolarizzando così l'onomastica secondo il suono della pronuncia inglese. Ma per un lettore italiano, tale soluzione è fuorviante e infelicissima: qualsiasi italiano, ignorando che smog ("smoke" + "fog", fumo più nebbia) vuole la o aperta mentre la au di "Smaug" vuole la o chiusa, leggendo "Smog" pensa allo smog, e la magia fiabesca va a farsi friggere. "Smaug" è efficacissimo proprio se viene letto alla maniera italiana, poiché fa pensare all'imitazione del verso del drago che spaventa i bambini: "Smaaaaaaaaauuuuughhhhhh...!".
Durante l'era Cattabiani, che si concluse nel 1980 ma si era già rannuvolata irrimediabilmente verso il 1977 a causa di incomprensioni con Edilio Rusconi, uscirono in ambito rusconiano le traduzioni italiane di Tree and Leaf (Albero e foglia, 1976), e nel 1978 Il Silmarillion e Tom Bombadil. A Cattabiani seguì una diarchia: un direttore generale, Ugo Braga, e un direttore editoriale in sottordine, Raffaele Crovi. In quel breve interregno gli interessi tolkieniani della Rusconi si affievolirono: uscirono soltanto le Lettere di babbo Natale (1980) e i Racconti incompiuti.(1981) secondo l'originale curato da Christopher Tolkien. Tutto il resto edito in italiano uscì presso Rusconi durante l'era successiva, in cui Ferruccio Viviani fu l'ottimo direttore editoriale (Braga come direttore generale rimase per un periodo limitato) e, dal 1989, Cristina Poma fu direttore letterario e capo redazione. A quegli anni risalgono le edizioni italiane dei Racconti ritrovati a cura di Christopher Tolkien (la cui arroganza e invadenza creò non pochi problemi alla casa editrice e al lavoro sul corpus tolkieniano), delle Immagini (1990), di una scelta di lettere (La realtà in trasparenza, 1991). Questi ultimi due volumi furono curati da me. Nel 1991 uscì anche presso Rusconi Lo Hobbit annotato, secondo l'originale inglese: una bella iniziativa, tale che le moltissime note ai margini e in calce costituiscono una vera enciclopedia della Terra di Mezzo in compendio. Fu quasi un rimedio postumo all'infortunio del 1973, quando Adelphi aveva "soffiato" Lo Hobbit alla casa di via Vitruvio. Fu l'ultima bella impresa tolkieniana della Rusconi, che allora conosceva una seconda giovinezza, un'età argentea dopo quella aurea del 1969-1974, grazie alla diarchia Viviani-Poma. Quella diarchia, storicamente, sta all'era Cattabiani come l'impero di Traiano e Adriano sta all'età augustea, "si licet parvis componere magna".
Nel 1993, Viviani abbandonò la casa editrice per crescenti attriti con il nuovo proprietario ed erede, Alberto Rusconi: il futuro distruttore dell'azienda, poi passata al gruppo RCS Rizzoli-Bompiani. Quel che seguì fu una sorta di decadenza imperiale del III secolo dopo Alessandro Severo: réguli incompetenti, piccoli mestieranti. La Rusconi rovinò sempre più: ciò che il suo proprietario, in fondo, bramava. Alla fine spuntò all'orizzonte l'Aureliano (o il Diocleziano) della situazione: il bravo colto e coraggioso Alberto Conforti, che prese in mano le redini con forza e con idee illuminate. Ma era troppo tardi: l'azienda era in crisi inarrestabile, e Alberto Rusconi aveva deciso irrevocabilmente di liquidarla, ciò che avvenne nel 1997-1998. Nel periodo 1992-1998 ci furono soltanto ristampe del Signore degli Anelli, nelle quali una mia introduzione aveva preso il posto di quella originaria scritta da Zolla.
Al di là della vicenda editoriale, non particolarmente clamorosa né avventurosa, l'opera di Tolkien ha lasciato un forte segno in me, e ne ho parlato volentieri. La mia persona, tuttavia, è stata cancellata dalla memoria storica. Del disprezzo con cui i cattolici mi hanno sempre considerato, ho già detto. Da altro fronte, il disprezzo si è trasformato in giudizio di nullità ontologica. Qualche anno fa, parlando di Tolkien sulle pagine culturali del «Corriere della Sera», Cesare Medail narrava a beneficio dei lettori, in poche righe e con innumerevoli errori, la storia che io ho narrato in queste pagine. A proposito del Signore degli Anelli, Medail scrisse che «uscì a cura di Cattabiani». Mi affrettai a scrivergli una lettera presso il «Corriere», pregandolo di rettificare. Non rettificò, né mai si degnò di rispondermi. Anzi, in un intervento successivo su quel quotidiano egli ribadì l'assurda notizia. Serbo un caro e grato ricordo di tanta gentilezza e di così squisita civiltà; spero di ricambiare, all'occasione.
Quest'anno, quando uscì la seconda e bella versione cinematografica del romanzo tolkieniano, la R.A.I. (Radio 3) pose un quesito lampo a uno scrittore, Alberto Bevilacqua, e a un critico letterario, Emanuele Trevi: Il Signore degli Anelli è o non è un capolavoro ? Bevilacqua rispose che un vero capolavoro deve parlare della vita quotidiana e dei problemi "reali". Ecco finalmente serviti a dovere e pronti per l'immondezzaio Le mille e una notte, i Kinder-und Hausmärchen dei Grimm, l'Iliade, l'Odissea, il Ramayana, Pinocchio, Orlando Furioso, la Commedia di Dante, i Racconti di Poe. Trevi fu più drastico, osservando che Il Signore degli Anelli, quasi un fumettone, induce a paragoni impietosi se confrontato con l'opera di scrittori contemporanei a Tolkien, per esempio con i romanzi di Céline. Giusto: è sempre un utile esercizio intellettuale domandarsi se siano più buone le albicocche o la mortadella. Possiamo dormire tra due guanciali.
Pubblicato dietro gentile concessione degli organizzatori del convegno