Su Tolkien e le Fiabe

di Terri Windling


"Il mio proposito è di parlare delle fiabe."
Con queste parole inizia un famoso saggio di J. R. R. Tolkien; ed io non posso far altro che ripetere le parole del buon professore oggi. Ho intenzione di parlare di fiabe, del perché queste fossero così importanti per Tolkien. E del motivo per cui queste storie, incluse quelle dello stesso Tolkien, siano state così determinanti per me.



Nel 1938 il professor Tolkien era noto come un linguista di Oxford. Il suo racconto per ragazzi, Lo Hobbit, era stato pubblicato solo l’anno precedente mentre il lavoro pluriennale sul Il Signore degli Anelli, l’opera matura, era appena agli inizi. In quell’anno Tolkien, in occasione di una lezione su Andrew Lang tenuta alla University of St. Andrews, compose il saggio "Sulle Fiabe" (poi pubblicato nel 1947
1 ). In questo saggio Tolkien fece un tentativo dotto di definire la natura delle fiabe, di esaminare le teorie sulle loro origini, e di confutare la nozione che le favole fossero un argomento riservato ai bambini. Essenzialmente, egli spianava il campo al suo capolavoro futuro, ricollocando le storie fantastiche al loro posto nella tradizione letteraria.

"The Mirror of Galadriel" di Alan Lee, ©1991




Come Tolkien sottolinea, "la connessione istituita tra bambini e fiabe non è che un accidente della nostra storia. Le fiabe, nel moderno mondo alfabetizzato, sono state relegate alla stanza dei bambini, così come mobili sciupati o fuori moda vengono relegati nella stanza dei giochi, soprattutto perché gli adulti non vogliono più vederseli d’attorno e non si preoccupano se vengono maltrattati." Ci ricorda che le fiabe non sono necessariamente storie di fate, bensì "vicende in cui si narra del mondo fatato, cioè Feeria, il reame o stato in cui le fate conducono la loro esistenza. E’ un reame che contiene molte altre cose accanto a elfi e fate, oltre a gnomi, streghe, trolls, giganti e draghi: racchiude i mari, il sole, la luna, il cielo, e la terra e tutte le cose che sono in essa, alberi e uccelli, acque e sassi, pane e vino, e noi stessi, uomini mortali, quando siamo vittime di un incantesimo." Egli paragona le fiabe ad un calderone pieno di minestra nel quale mitologia, storiografia, romance, agiografia, racconti popolari e creazioni letterarie sono state gettate assieme e quindi lasciate ribollire nei secoli. Ogni narratore attinge a questa pietanza quando scrive o racconta storie fantastiche — le migliori delle quali finiscono per riversarsi in questa risorsa collettiva. Shakespeare ha contribuito alla minestra con La Tempesta e con Sogno Di Una Notte di Mezza Estate, così come Chaucer, Mallory, Spenser, Pope, Milton, Blake, Keats, Yeats, e altri numerosi scrittori le cui opere non sono mai state destinate ai bambini.



Fu solo nel diciannovesimo secolo che letteratura e arte fantastica furono confinate all’infanzia — ironicamente, poiché ciò avvenne in un momento in cui l’interesse del pubblico adulto per queste arti non avrebbe potuto essere maggiore. Prima di allora, i racconti epici ed i miti antichi occupavano un posto centrale nella letteratura, mentre i loro cugini, i racconti popolari e le fiabe, venivano raccontati indifferentemente a giovani ed anziani. Quando passarono dalla tradizione orale alla letteratura, le fiabe lo fecero in qualità di storie per adulti. In occidente i primi racconti stampati di cui si abbia notizia provengono dall’Italia del sedicesimo secolo: Le Piacevoli Notti di Giovan Francesco Straparola e Il Pentamerone di Giambattista Basile. Entrambi i volumi erano lavori sofisticati, destinati ad un pubblico colto e adulto; le storie che contenevano erano sensuali, violente, complesse. Nelle più antiche versioni de La Bella Addormentata, ad esempio, la principessa non viene risvegliata da un casto bacio ma dai gemelli da lei partoriti dopo che il principe è giunto, ha fornicato col suo corpo addormentato e se ne è andato. Nelle versioni più vecchie di Biancaneve, un principe che capita davanti al feretro si appropria del cadavere della ragazza e si rinchiude con esso celandosi al mondo; la madre, che protesta per il cattivo odore che il corpo emana, si sente molto sollevata quando finalmente la giovane nubile resuscita. Cenerentola non è seduta nella cenere, piangente, mentre uccellini parlanti le volano attorno; in realtà è una ragazza sveglia, arrabbiata e fiera che cerca di riscattarsi. Nel diciassettesimo secolo, le fiabe vennero riprese dall’avanguardia Francese, soprattutto dalle autrici, rifiutate dall’Accademia di Francia. Scrittrici parigine arricchirono vecchi racconti popolari con frizzi e lazzi, usando le fiabe per criticare velatamente l’aristocrazia (questa forma d’arte era così famosa che quando finalmente si creò una raccolta di questi racconti francesi, vennero riempiti ben quarantuno volumi dell’opera chiamata Les Cabinet de fées). Nel tardo diciottesimo e nel primo diciannovesimo secolo, i romantici tedeschi (Goethe, Tieck, Novalis, de la Motte Fouqué, ecc.) crearono opere ricche di temi mistici ispirati dai miti e dalle fiabe, mentre i loro connazionali, i fratelli Grimm, lavoravano al loro famoso e influente volume di racconti popolari tedeschi. Le opere dei romantici tedeschi furono molto popolari in Inghilterra nel diciannovesimo secolo, e la prima traduzione inglese della raccolta dei Grimm (del 1832) accese la fiamma dell’interesse vittoriano su tutto ciò che era magico e fatato.



L’Inghilterra vittoriana fu invasa dalle fate. Danzavano sui palchi durante i balletti, si esibivano in elaborate produzioni teatrali, si adunavano in enormi dipinti esibiti alle mostre della Royal Academy. Il grande interesse del pubblico per le fate era in gran parte una conseguenza della rivoluzione industriale e dello scombussolamento sociale causato da questa nuova economia. Mano a mano che vasti tratti della campagna inglese scomparivano per sempre sotto malta e mattoni, le fate si rivestivano sempre più di un’aurea di nostalgia per uno stile di vita che andava scomparendo. Proprio quando l’interesse per il folklore fiabesco raggiunse il suo picco, avvenne una cosa singolare: si cominciò a spostare le fiabe dal salotto buono alla camera dei bambini. Due furono le cause principali dell’improvvisa produzione di libri fiabeschi dedicati ai bambini. Prima di tutto, i vittoriani idealizzavano l’idea stessa dell’infanzia, ad un livello mai conosciuto prima — in precedenza l’infanzia non era stata mai vista come qualcosa di così separato e distinto dalla vita adulta (la nozione odierna dell’infanzia come periodo dedicato al gioco e all’esplorazione ha le sue radici proprio in questi ideali vittoriani, anche se nel diciannovesimo secolo questo era vero solo per le classi più agiate. I bambini delle classi operaie lavoravano ancora ore e ore nei campi e nelle fabbriche, come Charles Dickens ha raccontato nei suoi romanzi — e come lui stesso ha provato sulla sua pelle). La seconda causa fu la nascita di una nuova classe borghese che allo stesso tempo era colta e benestante. C’era denaro da fare sfruttando l’infatuazione vittoriana per l’infanzia; gli editori avevano trovato un mercato e avevano bisogno di prodotto con cui riempirlo. Materiale a buon prezzo era facilmente disponibile saccheggiando le fiabe di altri paesi, semplificandole per i giovani lettori, e modificandole ulteriormente per adattarle ai rigidi canoni del periodo — trasformare giovani eroine in passive, modeste, sottomesse ragazze vittoriane, e gli eroi in ragazzi virtuosi, ricompensati per le loro virtù cristiane.



Nella sua lezione su Andrew Lang (dedicata quindi ad uno di questi editori vittoriani, anche se certamente non al peggiore), Tolkien denigrò questa epurazione dell’antica tradizione fiabesca. "Le fiabe, in tal modo bandite, tagliate fuori da un’arte pienamente adulta, finirebbero per guastarsi; e in effetti, nella misura in cui bandite sono state, si sono anche guastate." Tolkien sarebbe stato ancora più deluso, se solo avesse saputo che il peggio doveva ancora venire; In seguito infatti Walt Disney avrebbe fatto più danni di quelli causati da tutti gli editori vittoriani messi assieme. Solo l’anno prima Disney aveva pubblicato Biancaneve, il suo primo lungometraggio a cartoni — introducendo modifiche radicali a questo racconto di una relazione velenosa tra madre e figlia. Disney espanse il ruolo del principe, rendendo questo giovanotto dalla mascella squadrata fondamentale per lo svolgimento della trama; trasformò i nani in creature adorabilmente comiche (e perfettamente asessuate). Nella sua versione cantata, danzata e fischiettata, solo la regina mantiene una parte del suo potere originale. E’ una figura genuinamente spaventosa, molto più convincente della sorridente Biancaneve disneyana — che viene introdotta come una Cenerentola vestita di stracci, oppressa e al contempo audace. Tutto questo da alla versione disneyana del racconto un peculiare sapore americano, e ciò implica che stiamo guardando una tipica storia alla Horatio Alger, "dalle stalle alle stelle" (mentre in effetti si tratta di "dalle stelle alle stalle, e di nuovo alle stelle"). Anche se il film fu un trionfo commerciale, amato da generazioni di bambini, in tutti questi anni i critici hanno contestato le generalizzazioni che la Walt Disney Studios ha apportato e continua ad apportare ogni volta che riproduce delle favole. Lo stesso Walt rispose così alle critiche: "Semplicemente, ai nostri giorni la gente non vuole ascoltare le fiabe nella versione originale. Queste infatti erano troppo violente. In ogni caso, alla fine, si ricorderanno la storia nel modo in cui noi la filmiamo." Sfortunatamente il tempo gli ha dato ragione. Attraverso film, libri, giocattoli e oggettistica varia famosa in tutto mondo Disney, e non Tolkien, è il nome che oggi più di tutti viene associato alle fiabe.



Disney e i suoi emuli hanno una grande responsabilità circa le nostre idee moderne sulla adeguatezza delle fiabe alla prima infanzia. E non a tutta l’infanzia, come Tolkien sostiene con accanimento nel suo "Sulle Fiabe." I bambini, egli dice, non possono essere considerati una singola classe di esseri umani, con gusti simili. Alcuni bambini, come alcuni adulti, nascono dotati di un appetito naturale per la meraviglia, mentre altri bimbi, anche quelli cresciuti assieme ai primi, semplicemente non ne sono dotati. Normalmente quelli di noi che nascono con questo appetito trovano che questo non diminuisce con l’età, a meno che la società non ci insegni a reprimerlo e a sublimarlo. Tolkien, naturalmente, era il tipo di bambino affamato di avventure magiche e meravigliose. "Desideravo draghi, con tutto il mio cuore," ci dice eloquentemente.



Desideravo draghi, con tutto il mio cuore. La maggior parte dei lettori di Tolkien, immagino, hanno provato lo stesso sentimento. Io certamente, e non solo, allo stesso tempo desideravo molte altre cose; la musica ebbe un ruolo ben più determinante che non i libri, nei miei primi anni. L’interesse per i racconti si risvegliò, come per Tolkien, alle soglie della maturità — e fu, come il suo, "risvegliato dalla guerra", in un certo qual modo. Prima di lasciare le belle e verdi colline dell’Inghilterra di Tolkien per la mia America, vorrei spendere qualche parola sulla relazione tra guerra e fiabe. Tolkien non ha approfondito questo argomento nel corso della sua lezione su Andrew Lang, tuttavia (come i suoi studiosi hanno sostenuto) la sua esperienza di un mondo in guerra, di un male che minacciava la sua amata terra, permea ogni singola pagina del viaggio di Frodo attraverso la Terra di Mezzo. E’ questo aspetto, assieme all’elegante amalgama di mito e filologia sul quale poggia l’intero racconto, che trasporta Il Signore degli Anelli dall’area dell’intrattenimento alla letteratura.



Un altro grande fantasista, Alan Garner
2, ha scritto della sua esperienza di bambino in Inghilterra nel corso della Seconda Guerra Mondiale, e di come tale esperienza possa influenzare la creazione di un romanzo fantastico. "Mia moglie", annota Garner, "sostiene di trovare molto poco, nella moderna scrittura per l’infanzia, che si qualifichi come letteratura. Se ne è chiesta il motivo, dato che veniamo da un’età d’oro per questo genere, durata dai tardi anni cinquanta fino alla fine dei sessanta. Ha scoperto che in linea di massima gli scrittori di questo periodo erano bambini durante la Seconda Guerra Mondiale: una guerra che infierì sui civili. L’atmosfera in cui questi bambini e ragazzi crebbero era quella di una intera comunità, una intera natura unita contro il male puro, manifestatosi nella persona di Hitler. I genitori erano palesemente terrorizzati. La morte era una evenienza tangibile, reale . . .Quei bambini destinati a diventare scrittori, che sarebbero stati adolescenti quando gli orrori [dei campi di concentramento] sarebbero stati scoperti, non potevano evitare di confrontarsi con essi; e così i loro libri, qualunque fosse l’argomento, furono basati su temi profondi, ed erano letteratura. La generazione che è seguita a non è altrettanto carica di motivazioni, e gli scritti che ne derivano sono, al confronto, effimeri e frivoli." 3



Mentre concordo con Garner quando suggerisce che la "forgia temprante" della guerra ha generato ottimi lavori di letteratura fantastica, vorrei suggerire che temi mitici possono nascere anche in altri contesti — inclusa la sfera domestica che un tempo era il campo delle donne. Diamo un’occhiata alla narrativa fantastica pubblicata durante il ventesimo secolo — un campo che, grazie a Tolkien, si è sviluppato rapidamente dagli anni sessanta in poi. E’ possibile dividere questi libri in due categorie correlate ma differenti: i racconti che affondano le loro radici nel mito e nei grandi temi, nei simboli e nel linguaggio epico, nella romance, e quelli che sono invece basati su contenuti più modesti, sul folklore e sulle fiabe. La prima categoria include i racconti di spessore epico, farciti di grandi avventure eroiche e battaglie dalle quali dipende il destino di mondi interi, o perlomeno di interi regni. Della seconda categoria fanno parte racconti minori, più intimi — storie di riti di passaggio e di trasformazione individuale
4. Storicamente la letteratura epica veniva composta da uomini che appartenevano a classi privilegiate, e tramandata da personaggi colti quali i bardi, i monaci, gli studiosi e gli editori. La tradizione dei racconti orali, d’altra parte, era una tradizione contadina, e per la maggior parte femminile. Anche i più famosi promulgatori di queste tradizioni orali (Basile, Straparola, Perrault, ed i Grimm) riconoscevano che la gran parte delle loro fonti erano cantastorie di sesso femminile. Ciò che qui mi preme sottolineare è la predilezione di Tolkien per la prima categoria di racconti che fu "ispirata" dalla sua esperienza di guerra vissuta nella forma più epica: i grandi orrori della Seconda Guerra Mondiale; invece la mia preferenza personale per la seconda categoria nasce da un tipo diverso di conflitto — una guerra intima, una "forgia temprante" confinata al fronte casalingo.



Negli anni sessanta, mentre gli hobbit e gli elfi di Tolkien facevano vela attraverso il vasto Atlantico, ero una bambina che cresceva in una famiglia della classe operaia americana. Mio padre era un camionista, spesso disoccupato, di solito ubriaco; mia madre teneva la famiglia unita svolgendo due, tre o anche quattro lavori alla volta, tutti sottopagati, demoralizzanti ed estenuanti. La nostra piccola famiglia non era un caso unico, ci trovavamo nel Nordest industriale, dove l’industria dell’acciaio e le fabbriche che avevano sostenuto le generazioni precedenti stavano tutte chiudendo, una dopo l’altra, e spostandosi a sud. Un’altra cosa che certo non era una peculiarità di casa nostra era la violenza domestica — violenza che spaccava ossa, lasciava cicatrici, e che spediva noi bambini in ospedali dove medici spossati dal troppo lavoro (in quei giorni in cui non esistevano le leggi a tutela dei bambini maltrattati) ci ricucivano e rattoppavano e quindi ci rimandavano a casa. Non c’era niente di speciale in questo. Anche i bimbi del vicinato avevano gli occhi neri; anche i loro genitori erano senza lavoro. Tutti sapevamo che questi uomini erano furiosi. Che fossero anche spaventati è una cosa che ho capito solo in seguito. Mio padre non valeva niente là fuori, nel mondo, ma in casa poteva ancora dominare come un re, e la misura della sua virilità era nei suoi pugni. Io e i miei fratelli non avevamo bisogno delle bombe di Hitler per capire come poteva essere Sauron; non c’era bisogno del Terzo Reich per farci sentire come piccoli hobbit senza speranza.



Scopersi i libri di Tolkien non prima dei quattordici anni. Cominciai Il Signore degli Anelli in qualche momento dell’anno scolastico sul bus della scuola, leggevo con puro stupore mentre La Terra di Mezzo si dipanava davanti a me. A quei tempi la cultura veniva in gran parte dalla radio e dalla televisione, La Famiglia Brady era molto più attendibile di qualunque fiaba. Ma qui, qui, in questo libro fantasy trovai la realtà, e la verità — perché nella nostra infanzia bene e male non erano concetti astratti. Nel libro la battaglia mortale tra i due era tangibile. L’oscurità aveva coperto la Terra di Mezzo, corrompendo ogni cosa, e tuttavia il nostro eroe perseverava con l’aiuto della magia più grande di tutte: la lealtà degli amici ed il coraggio di un cuore nobile. Lessi la grande trilogia di Tolkien tutto d’un fiato, e ne fui profondamente cambiata… non, devo aggiungere, perché quei libri mi soddisfecero completamente. Ciò che fecero fu risvegliare il mio gusto per la magia, il mio antico desiderio di draghi. Ma anche allora, negli anni in cui non sapevo cosa fosse il femminismo, vidi che non c’era posto per me, una ragazza, nell’avventura di Frodo. Tolkien risvegliò un desidero che avevo dentro di me . . .fu poi ad altri libri che mi rivolsi — Mervyn Peake, E.R. Eddison, Lord Dunsany e William Morris, cercando in questi regni magici il paese in cui io potessi vivere.



Alcuni mesi dopo Il Signore degli Anelli scopersi un’altra opera di Tolkien, Albero e Foglia, un volume che conteneva il testo completo del saggio "Sulle Fiabe." E’ difficile spiegare l’entusiasmo che la lettura di quel libricino sprigionò in me. Per spiegarmi forse, dovrei illustrare meglio la situazione in cui mi trovavo in quel momento. Immaginate una ragazza piuttosto minuta, emaciata, di salute cagionevole, insolitamente silenziosa. In quel periodo in cui tornare a casa era un problema, spesso passavo le notti in un nascondiglio (ignoto a tutti eccetto che al mio complice, il custode) che mi ero costruita in un angolo appartato del guardaroba; che si trovava dietro il palco del teatro scolastico. Terrore e spossatezza non sono mai stati un aiuto per lo studio, fu con molto impegno che mi dedicai alla scoperta della prosa tolkieniana; le mie capacità critiche furono messe a dura prova da questo studioso di Oxford. Non capivo tutto quel che leggevo, non allora. Ma in qualche modo sapevo che quel saggio era fatto per me. "E’ stato nelle fiabe che, per la prima volta, ho scoperto la potenza delle parole e la meraviglia di cose come la pietra, il legno, il ferro, la casa, il fuoco, il pane e il vino." Si, si, si, mormoravo, eccitata perché anche io provavo le stesse sensazioni. E questo: "Desideravo draghi con tutto il mio cuore; naturalmente, peritoso com’ero, non mi auguravo di trovarmeli nei dintorni . . . Ma il mondo che comprendeva un Fàfnir, sia pure soltanto immaginario, era più ricco e più bello, per quanto pericoloso fosse." E specialmente questo: " . . . una delle lezioni delle fiabe (sempre che si possa parlare di lezioni a proposito di qualcosa che non monta in cattedra) è che il pericolo, il dolore e l’ombra della morte possono impartire dignità, a volte addirittura saggezza, a giovani inesperti, infingardi ed egoisti."



Quel che dedussi da questo saggio, così come lo compresi allora, fu che le fiabe di una volta erano ben più di quel che vedevo nei cartoni di Disney. Ripresi quindi in mano il libro di racconti che era stato il mio preferito da bambina: The Golden Book of Fairy Tale, tradotto dal francese da Marie Ponsot e disegnato con squisitezza e delicatezza da Adrienne Sègur. E fu qui che trovai il paese in cui potevo stabilirmi, l’acqua che avrebbe spento la mia sete, il cibo finalmente che mi avrebbe sfamato. Ero stata una bimba fortunata — non si trattava di una raccolta di fiabe ritoccate. Questi racconti, in gran parte russi e francesi, erano stati abbreviati ad uso dei giovani lettori, ma non semplificati. Tolkien non ha mai amato i racconti francesi di D’Aulnoy e Perrault, ma in quell’immaginario rococò trovai quel che stavo cercando: storie intime che, servendosi di allegorie, parlavano di trasformazioni personali. Erano racconti di bambini persi nei boschi; di figlie avvelenate dalle loro stesse madri; di figli obbligati a tradire i loro fratelli e sorelle; di uomini e donne abbattuti dai lupi o imprigionati in torri senza finestre. Lessi della ragazza che non osava parlare pur di salvare i suoi fratelli trasformati in cigni; leggevo col cuore in gola di Pelle d’Asino, il cui padre voleva portarla a letto. I racconti che mi colpirono maggiormente furono quelli che seguivano un archetipo: una giovane persona in gravi difficoltà che abbandona tutto, attraversa da sola boschi profondi e tenebrosi armata solo di nervi saldi, idee chiare, perseveranza, coraggio e compassione. In queste virtù identifichiamo gli eroi; con questi mezzi essi raggiungono il successo. Senza questi strumenti, nessuna magia potrebbe aiutarli. Sarebbero alla mercè del lupo e della strega malvagia.



Un anno dopo affrontai l’inevitabile crisi di ogni fiaba che si rispetti. Chiesi un vestito del colore della luna, del sole, del cielo, ma nulla di quel che feci tenne lontano il male, e così mi diedi alla fuga. Vivevo per le strade di una città lontana, tutte le mie cose in un sacco: due paia di jeans; due magliette di flanella; un pacco di lettere del mio primo amore perduto; un sacco a pelo logorato; e The Golden Book of Fairy Tales. Come Frodo Baggins, scopersi che avevo il dono di trovare amicizie vere; come gli eroi delle favole, mentre viaggiavo attraverso boschi bui e tenebrosi imparai che non c’è atto di generosità, non importa quanto insignificante, che non venga ricompensato. Imparai a distinguere l’amico dal nemico, trovai molti aiuti sulla strada: animali guida e fate camuffate nelle maniere più disparate.



Un anno dopo, grazie ad una magia potente come il più incantato degli anelli, mi ritrovai in un porto sicuro, costituito da un piccolo college del midwest. Fu in quel luogo che scopersi l’eredità che J.R.R. Tolkien si era lasciato alle spalle: un nuovo genere letterario chiamato fantasy, che affondava le radici nel mito e nella magia. Per me fu di grande importanza il fatto che molti di questi libri erano scritti da donne: Ursula K. Le Guin, Patricia A. McKillip, Joy Chant, Susan Cooper, C. L. Moore e tante altre, tracce ardenti che conducevano nel paese in cui desideravo metter su casa. Studiai la letteratura, il folklore, soddisfai il mio appetito con i lavori dotti di Katherine Briggs, i romanzi di Sylvia Townsend Warner e Angela Carter, la poesia fantastica di Anne Sexton, l’arte fiabesca di Jessie M. King  . . . tutte assieme provarono che Tolkien aveva ragione: le favole potevano elevarsi ad Arte ed io, una ragazza della classe operaia, potevo aggiungere qualcosa di mio alla minestra.



Il college sancì l’abbandono delle foreste oscure, il raggiungimento di un luogo luminoso, terre fertili dove la vita poteva essere vissuta con felicità, per sempre. Ovviamente questo non significava una vita libera dal dolore o dalle difficoltà, ma una vita della quale facevano parte quelle qualità che secondo Tolkien dovevano essere presenti alla fine di ogni favola: la consolazione della gioia e ciò che egli chiamava “una grazia miracolosa”. Per quanto sia affezionata a questa terra luminosa, ci sono momenti nei quali viaggio di nuovo in quei boschi, torno nell’oscurità, ancora una volta nella storia infinita. Ora, tuttavia, ho un ruolo diverso da recitare. Non sono più l’eroina che cerca di sopravvivere — Sono colei che aspetta sul ciglio della strada, camuffata, pronta ad illuminare la strada a coloro che vengono dopo di me.



In qualunque luogo io mi trovi su quella strada, Tolkien è già passato di là. Se mai mi succederà di incontrarlo faccia a faccia in quella foresta, gli stringerò la mano.




Endnotes
1 In Essays Presented to Charles Williams, Oxford University Press, 1947.
(riprendi la lettura)
2 Autore di The Owl Service, Elidor, Red Shift, Strandloper, ed altri ottimi libri.
(riprendi la lettura)
3 Nella sua raccolta di saggi The Voice That Thunders, The Harvill Press, 1998.
(riprendi la lettura)
4 Alcuni autori scrivono in entrambi i modi, naturalmente.
Lo stesso Tolkien adottò lo stile delle fiabe nel suo romanzo più breve.
(riprendi la lettura)


Sull’autrice:
Terri Windling è scrittrice, artista, editrice e fondatrice dell’Endicott Studio and Journal of Mythic Arts. Per maggiori informazioni visitate la biografia (in inglese) sul sito della Endicott.

Sulla traduzione:
Traduzione dall’inglese a cura di Nicola Iarocci per gentile concessione dell’autrice. Per le citazioni da Albero e Foglia si è fatto riferimento alla prima edizione italiana del volume, Rusconi 1976; traduzione a cura di Francesco Saba Sardi. La presente traduzione non può essere riprodotta in alcuna forma senza espressa autorizzazione dell’autore. E’ consentito citarla a patto che vengano riportati links a questa pagina e alla email e/o sito dell’autore.

Copyright © 2001 by Terri Windling.
Questo articolo è apparso in Mediations on Middle-Earth, edito da Karen Haber (St. Martin’s Press, 2001).
Non può essere riprodotto in alcuna forma senza l’espressa autorizzazione scritta dell’autrice. L'immagine riprodotta in questa pagina è tutelata dal diritto d'autore di Alan Lee e compare in questo lavoro grazie al permesso dell'artista. Altri suoi lavori possono essere rintracciati nella Endicott Gallery.

Pubblicato sul sito dell'Accademia Tolkieniana con il permesso dell'autrice e del traduttore.